COORDINAMENTO NAZIONALE  FP CGIL

POLIZIA PENITENZIARIA – Roma 15.06.2001 -

Intervento di Fabrizio ROSSETTI

 

 

Care/i Compagne/i

Avverto un rischio fortissimo nella discussione di oggi, quello di avvitarci in una riflessione più e meno consapevole, sulle motivazioni , le colpe ed i perché della sconfitta elettorale.

Vi chiedo di evitare questo rischio, almeno nella parte che meno ci appartiene come gruppo dirigente nazionale.

Evitiamo questo rischio anche perché più importante è, a mio giudizio, tentare di delineare oggi un progetto che concretamente tenti di rilanciare la nostra O.S. nel settore della Polizia Penitenziaria.

Questo significa che abbiamo il dovere di attivare, a partire da oggi, un ragionamento serio e approfondito sulle prospettive che si aprono.

Ragionamento che però deve considerare anche il percorso che ci lasciamo alle spalle, perché per capire dove si và bisogna sapere da dove si viene.

E noi veniamo da 5 anni di risultati che, malgrado tutto, io personalmente giudico positivi; una stagione che ha prodotto di fatto un avanzamento della Polizia Penitenziaria sia dal punto di vista istituzionale che sindacale.

Negli anni 1995/96, registravamo un’ afasia generale del sistema. Un Corpo di polizia penitenziaria ancora affannosamente in cerca di una sua identità, molto chiuso nelle sue logiche corporative e autoreferenziali, un Corpo ancora alla ricerca di primordiali assetti organizzativi e la cui visibilità esterna era pressoché nulla.

A ciò corrispondeva, in parallelo, un sistema contrattuale che era  retaggio pieno di una arcaica  cultura pubblicistica ed un sistema di retribuzioni calibrato attorno al vecchio concetto dello status militare.

Relazioni sindacali molto rigide, chiuse ed assolutamente incapaci di liberare risorse ed attività qualificanti sul territorio.

Possiamo affermare e lo  abbiamo già ripetutamente fatto in piena autonomia, che  gli interventi che si sono susseguiti e che abbiamo concorso a realizzare non sempre, poi, nella sostanza  si sono dimostrati pienamente corrispondenti alle nostre rivendicazioni e aspettative.

Spesso, anzi, abbiamo dovuto registrare un evidente scarto tra ciò che era nei nostri programmi e ciò che gradualmente si realizzava.

Ma quello sul quale abbiamo, invece, sempre e fino in fondo convenuto è stata la necessità che gli interventi “istituzionali” e “sindacali” che via via si realizzavano fossero ricomposti in un più generale quadro di riforma ed avanzamenti degli assetti.

-          Il regolamento del servizio traduzione e il relativo modello organizzativo

-          Il regolamento di servizio per il personale

-          L’istituzione dei ruoli direttivi, ordinario e speciale.

Solo per citare alcuni esempi, stanno lì a dimostrare, a prescindere dalle condivisioni di alcune scelte in essi contenute, che negli ultimi anni c’è comunque stata una evidente caratterizzazione dell’attività istituzionale rispetto alle esigenze della Polizia penitenziaria.

E la riforma del Dlgs 195/95 con l’introduzione del II^ livello di contrattazione

- I Contratti collettivi di lavoro che hanno avvicinato sempre di più le retribuzioni e il sistema delle relazioni sindacali ai luoghi dove l’operatività concreta si realizza.

-la riduzione dell’orario dell’orario settimanale da 38 a 36 ore in un quadriennio normativo.

-la sottoscrizione di un accordo integrativo che ha, di fatto, rimesso in moto un’attività decentrata di contrattazione che fino al giorno prima era relegata in un mero ruolo notarile e di registrazione di decisioni assunte altrove.

Sono anch’essi alcuni esempi indicativi di un più generale piano di interventi che abbiamo voluto e sostenuto, a volte in perfetta solitudine, e che sempre ci ha visto protagonisti.

E’ stato, però, altrettanto evidente lo scarto che abbiamo dovuto registrare fra la qualità e d il valore di questo progetto generale di intervento, di riforma ed avanzamento degli impianti e i concreti effetti sulla quotidiana attività istituzionale e sindacale.

Troppo spesso ad enunciazioni di principio contenute nei contratti e negli accordi  sono corrisposte reazioni uguali e contrarie che, soprattutto in questi ultimi tempi, stanno provocando ciò che io reputo il vero punto di sofferenza sul quale dobbiamo oggi misurarci: dobbiamo registrare che esiste un concreto tentativo di comprimere i diritti individuali e collettivi dei lavoratori della Polizia penitenziaria.

Ed è questa la colpa più grave che io attribuisco a questa Amministrazione; quella cioè di non aver speso sufficiente impegno e risorse per accompagnare questo progetto generale di interventi con attività di sostegno che fossero in grado di garantire il risultato sperato.

Ciò è sempre necessario, ma lo era ancor di più in un’Amministrazione come questa dove lo scollamento fra le articolazioni periferiche e i livelli centrali di responsabilità è stato ed è tuttora fortissimo.

Il sindacato ed i lavoratori stanno subendo di fatto gli effetti di tale scollamento; uno scollamento che, degenerando a volte in un vero e proprio scontro interno, sta provocando un arretramento del diritto e della sua esigibilità.

A mio giudizio, quindi, la prossima dovrà essere la stagione nella quale dobbiamo rilanciare il diritto,  tutelarlo, ma soprattutto riconquistare la certezza della sua esigibilità.

Due sono, per me, le grandi aree tematiche dentro le quali costruire un nostro progetto, una nuova piattaforma:

Quella contrattuale e quella degli interventi normativi.

Iniziando dalla prima.

Abbiamo di fronte una importantissima stagione contrattuale: un rinnovo normativo e due economici.

Il rinnovo della parte normativa deve porre inevitabilmente in discussione l’attuale sistema di negoziazione , ormai troppo confuso e con limiti sempre più evidenti.

Non è più sostenibile l’ibrida funzione di rappresentanza affidata ai COCER, né sindacato né ormai amministrazione, come da superare velocemente  è la stessa composizione del Comparto.

Dividere nettamente gli impianti contrattuali tra Comparto Sicurezza e Comparto Difesa è ormai irrinunciabile. I trattamenti economici e normativi devono tener conto della profonda diversità di impiego del personale dei due settori per i quali non è più proponibile una analoga struttura salariale.

L’occasione è insita sia nel rinnovo della parte normativa che nella legge delega approvata ultimamente in Parlamento per una nuova riparametrazione dei salari per il personale delle forze di Polizia.

Dalle scelte che dovranno compiersi a riguardo si determineranno le qualità ed i valori professionali degli operatori della sicurezza.

L’accordo quadriennale dovrà, quindi, contenere una radicale revisione della normativa sulla rappresentatività sindacale, concausa di una ingovernabilità del sistema ed anomalia rispetto ad altri settori del pubblico impiego.

La nostra piattaforma deve contenere e conterrà una rivendicazione chiara per un nuovo modo di rappresentare gli interessi dei lavoratori.

Un nuovo sistema che confermi il ruolo del sindacato ma che lo metta in equilibrio ed in sintonia con una rappresentanza più generale di interessi di tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti al sindacato.

Noi chiediamo elezioni libere e democratiche delle rappresentanze sindacali unitarie nella Polizia penitenziaria.

Il poliziotto penitenziario deve poter liberamente esercitare questo importante inalienabile ed insostituibile strumento democratico.

E su questo dobbiamo essere in grado di convogliare consensi fra i lavoratori; anzi, dobbiamo fare in modo che a rivendicare con forza l’esercizio di questo diritto siano proprio i lavoratori della polizia penitenziaria.

38,000 iscritti al sindacato e più di 22 organizzazioni presenti ( 6 delle quali nate in questi ultimi quattro mesi) la dicono lunga sulle storture e le degenerazioni di questo sistema.

Libere elezioni, quindi, anche per i poliziotti penitenziari; questa dovrà essere una delle nostre battaglie.

Ma vero punto nodale di questa prima fase di contrattazione collettiva, il primo vero banco di prova saranno gli stanziamenti economici a disposizione di questa tornata contrattuale che già dall’imminente DPEF caratterizzeranno l’attenzione del nuovo Governo sul settore della sicurezza, Ciò in condizioni “normali” e non in una interminabile campagna elettorale che ha evidenziato, da parte del centro destra, l’uso strumentale delle problematiche degli operatori della sicurezza.

Non potranno esserci stanziamenti minori per il Comparto sicurezza di quelli messi in campo dal Governo uscente.

Su questo aspetto si parte dai 2.300 mld dell’ultimo contratto.

Sulle scelte di fondo rispetto alla partita economica credo saremo costretti a difendere con i denti le scelte che hanno caratterizzato gli ultimi contratti: quelle di privilegiare e potenziare l’operatività  ed il disagio. Reputo però  anche giusto rilanciare l’esigenza di rivalutare quanti, nell’ambito delle attività istituzionali, compiono lavori ad alto contenuto professionale.

Tutto ciò essendo consapevoli che proprio rispetto alla partita dei rinnovi economici il Sindacato dovrà verificare con attenzione la strategia di attacco all’accordo sulla politica dei redditi più volte esplicitata in campagna elettorale da Berlusconi.

Comunque sia, però, la CGIL non potrà accettare e sono convinto non accetterà  meccanismi di recupero salariali difformi e minori da quelli individuati nell’accordo del 93.

Ma appare evidente che, oltre a conquistare migliori condizioni stipendiali, di vita e di lavoro, noi dobbiamo rilanciare sul tema della formazione professionale, sulla questione della mobilità degli operatori e degli alloggi ( argomento questo delicatissimo per un Corpo fortemente caratterizzato per estrazione geografica), ma anche sull’esigenza di mezzi e strumenti più efficienti indispensabili affinché anche la Polizia penitenziaria sia capace di rispondere con funzionalità ed             equilibrio  alla domanda di sicurezza e professionalità che promana sempre più dai cittadini.

Rispetto, invece, al 2° livello di contrattazione, quello di Amministrazione, permettetemi una veloce riflessione.

Io riconosco principalmente un merito e un limite all’accordo sottoscritto a luglio del 2000.

Il merito è quello di aver rimesso in moto l’attività sindacale sul territorio attraverso l’apertura di una nuova fase di contrattazione decentrata.

Il limite è quello di non aver previsto un quadro certo di regole che fosse in grado di risolvere i conflitti che da questa rinnovata attività conseguono.; ed è su questo secondo aspetto che bisognerà principalmente intervenire, ben sapendo che per costringere la controparte a ragionare su tale esigenza sarà necessario proprio acuire quel conflitto.

Dal conflitto, quindi, si deve ripartire per individuare nuove regole di comportamento dei soggetti.

Per ultimo, ma non da ultimo, credo debba essere riproposta con forza la questione legata al nuovo sistema pensionistico e della necessità che  previdenza integrativa e TFR siano temi la cui soluzione è prioritaria; già troppi anni sono passati invano senza che quegli importantissimi tasselli della riforma trovassero soluzione.

Su tale questione non c’è più tempo da perdere.

C’è un aspetto che, invece, risulta trasversale alle due aree di intervento all’inizio da me individuate: l’una contrattuale l’altra normativa.

L’ordinamento professionale .

So che sarà molto difficile già solo porre questa esigenza, ma dobbiamo rilanciare la necessità di un ulteriore passo in avanti del nostro sistema negoziale da pubblicistico a privatistico.

Ciò significa ottenere la piena contrattualizzazione degli ordinamenti professionali; e la definizione, per contratto dei regolamenti interni al Corpo.

Ma, a prescindere dalla riuscita o meno di tale operazione, che troverebbe fortemente reattivo un governo affascinato dalle gerarchie e dai modelli para militari, la Cgil deve comunque mostrare forza e capacità nel mettere in campo iniziative tese a modificare, seppur normativamente, gli ordinamenti.

A partire dall’individuazione di nuovi assetti organizzativi, di nuove e più funzionali figure professionali e confermando l’esigenza di una forte semplificazione delle qualifiche e delle procedure di avanzamento all’interno dei ruoli.

Un nuovo ordinamento che superi la filosofia conservatrice dell’amministrazione e che si caratterizzi per innovazione e coraggio.

Una riduzione delle qualifiche e la possibilità di ridefinire compiti e funzioni dei singoli operatori è di fatto l’unica strada per affrontare anche il problema della destinazione dei poliziotti ad alcune tipologie di servizio che risultano evidentemente connesse  al mandato istituzionale.

Ma, a mio giudizio, vi sono due questioni che riguardano gli ordinamenti che devono avere priorità assoluta rispetto alle altre poiché per loro natura e caratteristica hanno evidenziato tutti i loro limiti.

Mi riferisco al regolamento disciplinare ed al sistema di classificazione e giudizio del personale ( i c.d. giudizi di fine anno)

E’ oggettivamente difficile pensare ad una revisione parziale di questi due regolamenti per i quali reputo invece necessario una totale rielaborazione della materia.

Questi regolamenti sono l’indicatore di un sistema accusatorio e vessatorio sul quale la classe dirigente degli istituti è fortemente arroccata.

Eccessiva discrezionalità di giudizio ed operato che il sistema concede trasformano la norma in eccezionale strumento di governo del personale.

Sul sistema disciplinare noi registriamo deprimenti punti di sofferenza che vanno affrontati intervenendo su alcuni concetti generali:

·         Va superata l’indeterminatezza di alcune fattispecie di infrazioni che lasciano libero arbitrio interpretativo; la mancanza di correttezza nei comportamenti, ad esempio, è una di quelle fattispecie che vanno eliminate

·         Vanno indicati chiaramente i termini perentori dentro i quali necessariamente si devono sviluppare le diverse fasi dei procedimenti

·         Va affermato un nuovo ruolo del difensore, spesso rappresentante sindacale, come parte uguale nel procedimento; a lui deve essere garantita la possibilità d’intervento nell’inchiesta disciplinare che oggi risulta essere appannaggio del solo funzionario istruttore

·         Prevedere un attento rispetto della legge 241 anche su questo tema

·         Per assicurare la massima imparzialità dell’Amministrazione bisogna che venga affermato il concetto della terzietà nel giudizio. I presidenti delle commissioni devono essere soggetti realmente terzi all’Amministrazione.

In buona sostanza in un’ipotesi di revisione del regolamento riuscire ad affermare alcuni fondamentali principi giuridici quali quelli della gradualità della sanzione, della certezza delle procedure, dell’imparzialità, della facoltatività e non obbligatorietà dell’azione disciplinare.

Non molto diverso è il ragionamento che dobbiamo affrontare sui giudizi di fine anno.

Tale norma si è apertamente caratterizzata, proprio per la sua natura intrinseca, come eccezionale strumento di governo del personale, di soffocamento di singole aspirazioni democratiche e di progresso e di vendetta contro il sindacato.

E’ stato il punto di sofferenza maggiore ed è su questo che dobbiamo convogliare la nostra attenzione.

Si decidono, attribuendo giudizi, percorsi di carriera, miglioramenti professionali, ma si modificano anche orientamenti culturali.

Attorno al giudizio di fine anno sono calibrati i rapporti interni al personale, quelli funzionali e gerarchici, ma anche sindacali.

Ad una trattativa difficile, ad una manifesta incapacità di relazionarsi con le rappresentanze dei lavoratori i direttori, spesso, reagiscono con la ritorsione nei giudizi.

Ciò non è più possibile, il sistema di classificazione e giudizio va eliminato. E’ arcaico, ottocentesco ed antidemocratico.

Soffoca e non valorizza le capacità professionali degli operatori, soffoca e non valorizza la qualità delle relazioni sindacali.

La nostra piattaforma questo dovrà evidenziare: i lavoratori devono sapere che la Cgil, e non altri, vuole togliere dalle mani del direttore questo strumento di governo.

Le capacità professionali vanno misurate con altri indicatori: l’assenza di procedimenti disciplinari, gli incarichi e le mansioni attribuite, i percorsi professionali vissuti, la formazione professionale.

Uno specifico ragionamento merita invece la questione della 626

Prendiamo atto, come gruppo dirigente di aver forse sottovalutato l’aspetto della prevenzione e della sicurezza del lavoro negli istituti penitenziari.

E'un’autocritica che faccio soprattutto a me stesso.

Poca attenzione politica, poca attenzione organizzativa, difficoltà evidenti nell’apporocciarsi incisivamente ad un problema che proprio per la caratteristica del nostro lavoro è grosso come un macigno.

Ma è da questa autocritica che dobbiamo trovare la forza di reagire e rilanciare.

Dobbiamo inserire nel calendario dei nostri lavori momenti specifici di approfondimento ed intervento sull’inalienabile diritto ad un lavoro sicuro.

La Cgil ha lanciato proprio quest’anno la sua campagna di diritti sulla sicurezza.

Dobbiamo rispondere a questa campagna rilanciando una nostra presenza più determinata a partire da una verifica delle situazioni dove è in scadenza il mandato elettorale degli RLS e chiedendo uno scatto di attenzione alle nostre strutture territoriali affinché si facciano carico dei limiti formativi che hanno caratterizzato la nostra attività sul tema.

Non possiamo permetterci un disimpegno su questa materia nel momento in cui attorno alle politiche della sicurezza del lavoro il dibattito politico sarà a mio giudizio, intenso.

Una riflessione ulteriore sul tema delle pari opportunità.

Il percorso organizzativo e politico che ci ha permesso di costruire con successo l’iniziativa del 9 Aprile a Rebibbia sulla Dispari opportunità nel Corpo della Polizia penitenziaria va potenziato.

Va innalzata l’attenzione su come l’istituzione carceraria affronta le questioni drammaticamente emerse dai questionari che abbiamo proposto alle lavoratrici della polizia  e va resa più incisiva la nostra capacità di intervenire sulle discriminazioni insite negli ordinamenti professionali, a partire dalla separazione delle dotazioni organiche  soprattutto nei ruoli intermedi ed apicali del personale.

Vanno costantemente monitorate quelle situazioni locali nelle quali le poliziotte vengono marginalizzate in mansioni meramente esecutive e prive di accettabili ambiti di responsabilità

Ma soprattutto dobbiamo ricalibrare al nostro interno, alcune scelte di tipo organizzativo.

Anche oggi la presenza, o meglio l’assenza delle donne è emblematica di una nostra scarsa attenzione.

Io leggo un rischio, quello cioè che si determini uno scarto fra le nostre posizioni sul tema delle discriminazioni di genere e la nostra capacità od incapacità a coinvolgere forze e risorse all’interno del nostro quadro di riferimento sindacale di settore.

Nei prossimi anni dobbiamo dare concretezza a tali scelte.

Le donne devono essere punto di riferimento prima di tutto per noi e fra noi.

Dobbiamo essere capaci a tutti i costi di esprimere un gruppo dirigente nazionale formato da compagne che vivono sulla loro pelle la quotidiana sofferenza dell’essere donna nel corpo della polizia penitenziaria.

Un ultimo aspetto mi preme evidenziare in questa mia lunga ed inedita relazione e colgo l’occasione della presenza di Laimer Armuzzi.

Partecipazione, informazione, formazione, servizi e tutele sono i cardini fondamentali attorno ai quali si costruisce una organizzazione capace di caratterizzarsi nella sfida che ci attende.

Ritengo giusto oggi affrontare anche quegli aspetti organizzativi che ruotano intorno a tali concetti un po’ astratti.

Primo fra tutti il rapporto che lega le strutture di Funzione Pubblica ai posti di lavoro, che nel nostro caso è bene ricordarlo sono istituti penitenziari.

Io da anni registro una difficoltà a rendere organico questo tipo di rapporto, da anni mi scontro con realtà territoriali, neanche tanto marginali, che evidenziano una sostanziale incapacità a comprendere l’importanza politica del rappresentare questo settore.

A fronte di una esigenza di rappresentare i poliziotti, forte irrinunciabile e che deve essere anche di tipo politico culturale, le scelte operate in questo senso risultano quantomeno contraddittorie.

Io non credo che qui, oggi, possa essere messo in discussione l’approccio politico sul tema del carcere. Non alla presenza di Laimer che, invece, in questo senso ha sempre convenuto.

Qui oggi vorrei discutere i meccanismi con i quali questa organizzazione, nelle sua articolazioni, dà gambe a queste scelte politiche.

Non c’è, o è almeno residuale, ad esempio un organico incardinamento dei dirigenti sindacali della polizia penitenziaria negli organismi direttivi delle strutture e ciò da un lato induce di fatto a considerare marginale la partecipazione dei poliziotti alle dinamiche più complessive che si sviluppano all’interno dell’organizzazione e dall’altro accresce fra i poliziotti quella già endemica predisposizione alla separatezza che provoca, in alcune degenerazioni, una sorta di parallelismo organizzativo.

L’occasione per reincardinare correttamente il rapporto fra strutture e posti di lavoro in un più generale progetto politico ci sono, a partire dal prossimo congresso, ma và rafforzata la capacità d’intervento su quelle situazioni  specifiche nelle quali è evidente l’assenza di rapporti politici organizzativi.

Il secondo aspetto che discende direttamente dal primo è quello relativo alle risorse, umane ed economiche, da destinare a questo settore.

Io devo registrare con estrema soddisfazione come sia cambiata l’attenzione della segreteria generale e del Palazzo di via serra sui temi che riguardano la nostra attività .

Oggi, a livello nazionale, la situazione è profondamente migliorata grazie ad una sensibilità politica che ha già caratterizzato l’attività di Armuzzi sulle questioni relative alla Sicurezza.

Ma è evidente che ciò deve riguardare tutto il territorio nazionale non solo il Centro di Roma.

Quello che a mio giudizio manca principalmente oggi è la condivisione generale di un concetto di fondo: Il corpo della polizia penitenziaria non può essere considerato con gli stessi meccanismi e parametri attraverso i quali, all’interno della Cgil, si individuano le priorità.

Bisogna condividere e far maturare negli altri l’idea che questo settore è per sua natura un settore debole, un settore nel quale gli investimenti organizzativi devono avere sempre a riferimento la misura politica della problematicità dell’Amministrazione penitenziaria e del suo servizio.

E’ già di per se difficile rappresentare per la Cgil un settore ostile per cultura, per organizzazione e per storia, diventa impossibile se nel tentare di rappresentarlo non si mettono in campo strumenti eccezionali.

Una ultima veloce riflessione vorrei farla sul tesseramento. Ho maturato, nel corso di questi ultimi anni, la consapevolezza di operare in un settore in cui le dinamiche attraverso le quali si sviluppano il consenso ed il dissenso sono e resteranno estremamente differenti da quelle comunemente riscontrabili in altri settori.

Qui si fanno tessere e quindi si acquisisce consenso utilizzando un sistema di relazioni interpersonali fatto da entrature, interessi specifici e clientele.

Il patrimonio sindacale confederale nella Polizia penitenziaria ha sempre mostrato i suoi limiti.

E ciò è oltremodo vero se guardiamo a come CISL e UIL si sono caratterizzati inn questi anni: ne più ne meno che sindacalismo autonomo.

Io credo nell’esigenza di differenziare ulteriormente le nostre caratteristiche.

In una stagione in cui le tensioni ed i rapporti sindacali subiranno repentine mutazioni, rivendicare con orgoglio quel patrimonio fatto di iniziative di lotta politica e sociale deve rappresentare il nostro elemento di rottura rispetto ad altri soggetti di rappresentanza.

Oggi più che mai l’adesione alla CGIL deve poter coincidere con la condivisione di un progetto, di una idea di progresso e cambiamento.

Caratterizzarci per quel che siamo, un sindacato solidale e democratico, un sindacato che coniuga interessi soggettivi con quelli più generali, ma soprattutto un sindacato che combatte con forza quella cultura militare, chiusa e corporativa, sulla base della quale gli altri, invece, fondano la loro esistenza.

Un ultimissima considerazione sulle iniziative di lotta che dobbiamo essere capaci di realizzare.

Uno dei limiti evidenti del sindacalismo di polizia è l’assenza di incisive forme di lotta come lo sciopero.

E’ evidente, quindi, che per affrontare in maniera idonea la prossima stagione abbiamo bisogno di affinare gli strumenti che la legge ci affida e garantisce.

Io reputo due le alternative sulle quali costruire iniziative:

La prima riguarda la mobilitazione.

Non dobbiamo avere paura di manifestare il nostro dissenso in pubblico, anzi, ho già detto in precedenza che abbiamo l’esigenza di utillizzare questo strumento di lotta quale necessario punto di rilancio della nostra attività e per costringere la controparte a ricalibrare, attorno al conflitto il sistema delle relazioni sindacali.

L’altra è il possibile ricorso alla giurisdizione ordinaria e anche penale su atti assolutamente illegittimi assunti sui temi della garanzia dei diritti di cittadinanza che verranno, e ne sono sicuro, ripetutamente messi in discussione.

E’ evidente che questo strumento deve essere adottato solo quando diventi indispensabile.

Chiedo su questi due possibili strumenti di lotta una condivisione della segreteria generale e del coordinamento tutto poiché è a partire da tale condivisione a  che dovremo giocoforza attrezzarci anche organizzativamente sul territorio.

Il progetto chiaro che pongo oggi in discussione ha come obiettivo quello di metterci nella condizione di arrivare con la giusta tensione e preparazione alla stagione che si aprirà formalmente già dal prossimo autunno.

Grazie