FP CGIL NAZIONALE

Convegno " Le donne nella Polizia penitenziaria "

LE DISPARI OPPORTUNITA’ 

 

CONVEGNO SULLE PARI OPPORTUNITA’

Relazione  di ANGELA SCANGA

 

In un mondo come quello del carcere, la sofferenza è un termine scontato e parlare di alienazione appare un modo antiquato e sorpassato nella discussione della realtà dei lavoratori e delle lavoratrici. Ma la storia e la condizione delle donne nel Corpo della polizia penitenziaria sono segnate ancora da questi sentimenti che la ricerca che abbiamo condotto fra le lavoratrici fa appena trasparire.

Questa ricerca è stata effettuata distribuendo dei questionari alle agenti del Corpo della polizia penitenziaria, distribuite per area geografica e tipologia d’istituto.

I questionari, compilati in maniera anonima, riconsegnati alla CGIL sono stati 1.123.

Lo scopo della ricerca era quello di verificare a che punto fosse il processo di inserimento delle donne in un corpo nato e pensato unicamente al maschile.

Le risposte ricevute ci danno un quadro abbastanza definito sui ritardi nel rendere paritaria l'organizzazione dei Corpo e un elemento di allarme per quanto riguarda la questione delle molestie sessuali.

Appartenere ad un Corpo i cui valori, lo spirito di coesione, i giudizi di merito e di affidabilità sono stati pensati e strutturati al maschile; confrontarsi sulla base di una cultura militare, attraverso una catena gerarchica e con un approccio al dialogo e ai conflitti che premia un immaginario di virtù virili è una sofferenza costante e sottile per le donne che sono costrette a guadagnarsi da sole professionalità, capacità e credibilità in un sistema poco propenso a rinnovare i propri metodi ed i rapporti interni.

Nell’organizzazione e nelle relazioni professionali di un istituto penitenziario l’intelligenza non paga. Porre problemi, mettere in discussione meccanismi rigidi e spesso bloccati di gestione del servizio da difficoltà ulteriori perché minaccia equilibri e privilegi consolidati.

Per una agente, una sovrintendente, una ispettore donna affermare la propria credibilità, l’affidabilità, la professionalità richiede una competizione forzata per rispondere adeguatamente alla sfida di modelli e capacità presunte "virili" e porta alla rinuncia a far valere altre risorse e capacità che sono invece preziose nel contesto multiforme di rapporti con i detenuti e le detenute o fra gli operatori che interagiscono nei diversi momenti e nelle diverse situazioni.

Alla domanda, esplicita, sul fatto che l'organizzazione dei Corpo sia poco disposta alle esigenze delle donne che vi operano, il dato che salta agli occhi è che appena il 9% delle intervistate pensa che non ci siano differenze tra uomini e donne.

Ci sono quindi circa 9 operatrici su 10, tra quelle intervistate, che pensano, con sensibilità diverse, che il Corpo sia ancora pensato solo per gli uomini.

Si ammette che qualche cosa sta cambiando, ma in questo cambiamento sembra trapelare una lentezza esagerata, che analizzando le risposte alle domande successive, inficia anche, per il 54%, la possibilità di carriera.

La stessa idea di avere una famiglia, che una donna vive, teoricamente e praticamente, in maniera diversa da un uomo, diventa difficile da realizzarsi con gli attuali orari e modelli organizzativi. Infatti se per addirittura il 26% delle intervistate è impossibile pensare contemporaneamente a famiglia e professione, per il 63% è possibile solo con grande fatica.

I valori di umanità, di sensibilità ai problemi, la diversità e l’elasticità di atteggiamento e di approccio sono per le donne un rischio, nel miglior caso di essere fraintese nelle intenzioni; perché è scontato che la gestione delle situazioni o del conflitto, se ha conseguenze, se impegna le responsabilità degli organi superiori, viene valutata e rappresentata con sufficienza, per la presunta minore capacità delle donne a garantire il sistema e l’ordinato regime penitenziario.

E se diamo per assunto che ad essere sbagliata non è questa specificità delle donne, allora è sicuramente da correggere il modello organizzativo dei Corpo, pensato solo al maschile.

L’autorevolezza dell’istituzione si sente minacciata dall’essere donna e, per la verità, spesso dall’essere persona e non solo un posto di servizio presidiato senza partecipazione alla vita e alle attività del sistema penitenziario.

Così per molte donne non serve tanto metterci l’anima, la passione, le competenze, le doti umane e professionali. Ci si sente chiamate a dimostrare capacità di resistenza e di rinuncia al proprio essere diverse ma parimenti in grado di affrontare problemi e offrire soluzione alla migliore gestione del servizio.

Le operatrici intervistate si dividono, e qui forse pesa l'esperienza personale e la "qualità" dei colleghi, quando gli si chiede come si sentono considerate dai loro colleghi uomini, con un 52% che si sente considerata alla pari e un 45% che si sente considerata meno.

Questa sensazione cambia nettamente quando si formula la stessa domanda in rapporto alle detenute, con il 71 % che si sente più rispettata in quanto donna.

Nel rapporto con le gerarchie, emerge un dato che deve far riflettere. Pur essendo un agente con gli stessi diritti e doveri dei colleghi uomini, e con le stesse capacità professionali, l'operatrice di polizia penitenziaria per un 37% delle intervistate non è considerata dai suoi superiori adatta a tutte le tipologie di servizio, nonostante ben l'88% dichiari, in un'altra domanda, di esserlo.

Anche alla domanda se i colleghi uomini lavorino più tranquillamente con donne o con colleghi dello stesso sesso, le intervistate si dividono, con un 56% che vedono i loro colleghi lavorare tranquilli sia con uomini che con donne.

Ma anche qui pesa probabilmente il tipo di servizio e l'esperienza vissuta. In definitiva, l'insieme dei rapporti, lavorativi e personali, sono condizionati da una visione maschile dei lavoro della polizia penitenziaria.

Ci si sente ancora troppo spesso aliene, "estranee" alle logiche dei piccoli e grandi poteri del regime penitenziario, che ci condizionano, ma che non vogliono essere messi in discussione.

Spesso siamo attese al varco, quando emergono i problemi della vita privata, della maternità, dei figli, della famiglia, perchè è il momento in cui la donna si mostra debole e non garantirebbe il servizio e la professionalità come un uomo.

Naturalmente anche i Signori uomini rappresentano gli stessi problemi e richiedono le stesse opportunità sul tempo del lavoro e negli incarichi. Ma loro dispongono spesso di altri canali di mediazione e di negoziato, spendono meglio i loro poteri sul servizio per strutturarlo e gestirlo più convenientemente.

Ormai non c’è quasi più una donna a casa che integra coi suoi sacrifici gli impegni sul lavoro della polizia penitenziaria.

Ma la mentalità è sempre quella. Noi con le nostre famiglie, con i figli, con la vita privata non siamo come gli uomini, siamo un problema del carcere e per i numeri della pianta organica.

Una mentalità, un condizionamento del privato e una vita di lavoro difficile che finisce per aver i suoi sbocchi perversi anche sulla sfera della libertà sessuale.

Innanzitutto, per la curiosità pervasiva e spesso morbosa sulla vita, sull’emotività, sulla libertà della donna.

Scoprire il proprio privato, le proprie inclinazioni nella dimensione affettiva, anche di solidarietà o di amicizia, di integrazione coi colleghi, può esporti a pregiudizi e a considerazioni proprie di un maschilismo che sopravvive becero e insulso nell’ambiente del lavoro.

Ma il rischio maggiore è quando questo si intreccia con i ruoli e il potere della gerarchia. Allora si innescano sottili e perversi condizionamenti che possono portare ad ulteriore emarginazione ed isolamento.

Perché in un istituto penitenziario sei coinvolta comunque, nelle logiche di potere e di gruppo e la molestia subita deve rimanere nascosta perché metterebbe in crisi irrimediabile l’immagine dell’autorità. Ma proprio perché nascosta autorizza gruppi e piccole lobby a servirsene ancora contro la donna per condizionare, in realtà, l’autorità stessa, che dispensa meriti e posizioni di favore nel carcere.

Le risposte ricevute ad alcune domande sulle molestie sessuali forniscono dei dati che, se non allarmanti, fanno emergere un fenomeno da verificare con molta attenzione.

Alla domanda, precisa, se si è mai venute a conoscenza, sul posto di lavoro, di episodi di colleghe molestate, una intervistata su tre risponde si! E' un dato altissimo, se si considera che in questi casi ciò che emerge in pubblico è solo una parte di quello che realmente accade. Per dare una idea concreta della consistenza di questi numeri, basta fare un esempio: ognuno pensi a dieci donne di sua diretta conoscenza (famigliari, amiche, conoscenti) e immagini che (almeno) tre di loro siano state molestate. Pensarlo ci sembrerebbe una forzatura, perché nella vita quotidiana di persone che agiscono in tutti i settori della società civile questa percentuale sarebbe folle. Ma nel microcosmo dei Corpo di polizia penitenziaria è così!

Il dato è poi perfettamente confermato, anzi aggravato, da un 81 % di donne che affermano, senza tema di smentita, che alle molestie corrispondono poi discriminazioni nel lavoro.

La richiesta, con numeri altissimi, dell'adozione di un Codice di condotta contro le molestie sessuali e l'istituzione dei consigliere di fiducia sono un forte grido di allarme e di aiuto.

Lo sviluppo di una migliore condizione delle donne nella polizia penitenziaria ha un limite nella sua stessa storia che ha determinato una frattura generazionale fra la parte proveniente dal ruolo delle vigilatrici e le nuove agenti entrate nel Corpo attraverso i concorsi post-riforma.

Così gli scarsi quadri nei ruoli gerarchici superiori sono tuttora emarginati, per il pregiudizio perdurante sulla propria esperienza professionale delle cosiddette ex vigilatrici e spesso per l’età anagrafica.

Un uomo nel Corpo a 50 anni è considerato maturo, equilibrato ed esperto una donna quasi non serve più.

Le giovani agenti, invece, devono competere coi ragazzi e trovano il terreno di sfida sulle capacità di rispondere come gli uomini ai servizi, in realtà, meno qualificanti come la sentinella, le scorte, le dure della sezione.

E’ difficile la solidarietà fra donne perché l’esperienza, le storie, le generazioni dividono anzichè unire le spinte per l’emancipazione e per le pari opportunità nell’Amministrazione penitenziaria.

L’insieme di queste realtà difficili, che non sono governate responsabilmente e il sopravvivere di pregiudizi, di modelli e schemi di comportamento fortemente gerarchizzati e autoritari, fa si che l’Amministrazione non spenda sulle risorse originali che le donne possono offrire al Corpo di polizia penitenziaria, ne che ci sia il rispetto formale e sostanziale delle donne e delle loro potenzialità.

 

Per garantire rispetto e superamento di pregiudizi sono necessari strumenti di tutela come quelli che proponiamo con il codice di condotta contro le molestie sessuali e con il consigliere di fiducia.

Ma per affermare di principi di pari opportunità, per ripensare le regole e i meccanismi di designazione ai livelli maggiori di responsabilità, i modelli organizzativi del servizio di polizia penitenziaria, sono necessarie "azioni positive" che promuovano l’accesso delle donne alle responsabilità che potranno interpretare senza dover dimostrare virtù pseudo-virili; perchè l’intelligenza, la passione e la sensibilità delle donne fanno spesso di più e meglio.

Roma, 9 aprile 2001