Direttori:  Le complessità della funzione ed il ruolo unificante

Relazione di Massimo di Rienzo - Direttore di Istituto Penitenziario 

 

La complessità del lavoro del direttore penitenziario è direttamente proporzionale al tipo di concezione che del carcere si adotta e della relativa filosofia della pena.

Mi pare abbastanza scontato che un carcere chiuso in se stesso, che abbia della sicurezza una visione solamente repressiva e limitante, che amministri esclusivamente i suoi interessi burocratici, produca una ridotta complessità delle problematiche che intenda affrontare.

Viceversa un carcere moderno, che abbia della sua mission una concezione articolata, che sia il prodotto di una filosofia della pena che spazi su più piani, almeno quanti quelli insiti nella norma costituzionale ( punizione – senso di umanità – rieducazione), vede accentuare la sua complessità.

            Ma il carcere, quale topos della mente,  mondo separato in cui l’immaginario collettivo è portato con un evidente automatismo  mentale a vedere concentrate le varie dissonanze sociali, si rappresenta come un’entità semplice, nella sua nudità punitiva, o invece complessa per la poliedricità  delle sue competenze ?

Anche in questo caso la risposta non può essere univoca. In via di prima approssi-mazione credo si possa ritenere influente la sensibilità sociale e il tipo di cultura politica di appartenenza nel riferirsi ora all’una, ora all’altra categoria di pensiero, anche nelle varie graduali sfumature e nell’ampiezza delle tipologie da contenervi.

Conseguentemente la funzione di chi alla responsabilità di un carcere è preposto risente della interpretazione che condivide del carcere, e della pena,  pur nel rispetto formale del dettato normativo, questo sì,  sempre assicurato.

Certamente la presenza di componenti diversificate all’interno del mondo penitenziario, non sono di per se stesse portatrici di multiformità dell’azione penitenziaria, se ciascuna di essa non viene messa nelle condizioni di poter adempiere con pienezza il proprio mandato. Così come la grave sperequazione in termini numerici e di potere di condizionamento fra queste articolazioni vede troppo spesso la prevalenza di una componente a discapito dell’altra.

Problema questo che va ad accentuarsi quando  ci si trovi a  riflettere che non solo percorsi culturali e professionali e formativi  diversi caratterizzano le componenti del mondo penitenziario. Elementi questi che, attraverso una valorizzazione delle differenze,  potrebbero generare  una ricchezza complessiva. Credo però che la differenza di regimi contrattuali, con tutto ciò che ne deriva in termini di riconoscimento di diritti, di interessi diversamente tutelati, di aspettative distintamente riconosciute generi una complessità  problematica, negativa nella gestione complessiva della cosa penitenziaria.   

                A ciò si aggiunga la particolare situazione che vive la componente custodiale, ingab-

biata in un paradigma operativo di tipo poliziesco, forzatamente riportato in un  contesto in cui lo schema repressione-prevenzione, proprio dell’approccio di polizia, rivela tutti i suoi limiti.  Ben  altro spazio di intervento avrebbe meritato   il disegno dell’operatività di un organismo tenuto a gestire una popolazione in stato di privazione della libertà, perché tale stato non si riduca ad una degradazione della dignità umana.  

                Da qui anche lo stato di sofferenza della Polizia penitenziaria che, avvertendo i limiti di una situazione che restringe le proprie potenzialità, in assenza di  una disamina accurata e scevra di pregiudizi, non riuscendo a canalizzare le proprie risorse verso un progetto compiuto, scarica le sue tensioni in una serie di rivendicazionismi fine a se stessa.

                Il quadro che si presenta è quindi quello di una complessità fatta di articolazioni  problematizzate se si pensa anche alla componente preposta alle attività rieducative, affetta da un ormai cronicizzato sottodimensionamento che la condanna ad una presenza  poco più che simbolica. Se a ciò si aggiunge la riduzione delle spese concernenti le attività dei detenuti ( da ultimo il taglio drastico del 44 % sulle mercedi dei lavori domestici), è evidente che l’istanza riabilitativa subisce un notevole ridimensionamento.

               

                II A definire ulteriormente la problematicità del compito di chi lavora in carcere sono anche documenti di organismi internazionali. E’ il caso dir ricordare che prima le N.U. nel 1955, poi il Consiglio dei ministri  della U.E. nel 1987 dedicano ampio spazio nelle loro carte fondative alla natura ingrata e penosa del lavoro di chi opera in carcere. Ed è di rilievo il dato che in tali occasioni gli organismi internazionali, pur dettagliando le loro indicazioni - le N.U. vi dedicarono ben 9 paragrafi – si rivolgono al personale penitenziario nel suo complesso unitario, senza distinzione alcuna in relazione alla diversità di compiti. Evidentemente già questa era una visione unitaria dell’azione penitenziaria.

                Infatti la vita penitenziaria è afflitta da una storica dicotomia fra esigenze di polizia e  tendenze riabilitative. Da sempre, dall’affacciarsi della riforma del ’75 si discute dell’ ambi-valenza fra queste due linee e con varie sfumature se ne accetta una certa compatibilità.

                Io credo che fino a quando non riusciremo a superare questa continua querelle, non si faranno molti passi in avanti. Fino a quando non riusciremo ad organizzare un approccio culturale  che prescinda da queste due categorie e si impossessi di una azione penitenziaria

che utilizzi allo stato costitutivo elementi che possano essere ricondotti al modo di pensare la sicurezza  e  quindi al modo di pensare la rieducazione staremo a dibattere in modo sterile della loro conciliabilità e della prevalenza dell’una sull’altra.

                Voglio dire: la cultura degli operatori penitenziari deve fare un salto di qualità e fare proprio un paradigma di pensiero che metta al centro l’azione penitenziaria nella quale convivano, in un ambito che salvaguardi le esigenze di difesa sociale e di sicurezza interna:

- il rapporto con la persona detenuta; - la considerazione delle sue reali esigenze;- il tramite con il suo mondo di relazione; - l’implementazione dell’istituto nel tessuto sociale.

                Non vuole questo essere un mero artificio dialettico. E’ una proposta per interpretare in maniera diversa le prospettive professionali di ciascun ruolo e per proporre un punto di partenza per nuove progettualità.

                Fino a quando vedremo l’intervento penitenziario come lacerato fra esigenze ed sicurezza ed istanze di riabilitazione, con una diversità di compiti ritagliata in base al ruolo di appartenenza, con tutto quello che ne deriva sul piano delle diverse politiche di governo del personale, pochi saranno i progressi rispetto alla situazione attuale.

                Se invece ci abituiamo a pensare il carcere come luogo nel quale l’ordine e la disciplina sono condizioni ineludibili, pertanto pre-condizioni imprescindibili che concorrono alla sua definizione  concettuale e fisica, rimane poi ampio spazio per riempire questo contenitore di cose da farsi, e che sono gli interventi  diretti in primo luogo a garantire il limite invalicabile della  umanità della pena e quindi quello della rieducazione.

 

                        Considero quindi molto negative quelle tentazioni, trasfuse anche in proposte di legge, che mirano a comprendere in un carcere a misura di polizia tutte le articolazioni che in esso agiscono: ragioni storiche,  giuridiche e politiche sconfessano tali posizioni:

-         In tutti i paesi più avanzati, ed ora progressivamente anche in quelli che si sono più di recente innovati  con tratti di sempre maggiore democrazia, l’amministrazione carceraria, sia nelle sue articolazioni periferiche che in quelle di vertice, è affidata a dirigenti di rango civile, e non poliziesco, né militare;

-         La fase della detenzione, successiva alla privazione della libertà, necessita di garanzie e di rispetto dei diritti umani che universalmente un’autorità di polizia, per la sua formazione finalizzata al contrasto-conflitto con la criminalità, non è in grado di assicurare ( e non mancano gli esempi, anche recenti, di quali reazioni incontrollate ed impensabili possono scatenarsi da una malsana concezione del potere che si può esercitare incondizionatamente sul ‘prigioniero’)

-         La gestione di una fetta di umanità altamente diversificata nella sua problematicità (dal mafioso al tossicodipendente) impone modalità di intervento altrettanto differenziate. Fra esse quelle che possono ricondursi ai modelli prevenzione-repressione “, propri di un approccio di polizia, esauriscono in maniera molto parziale tutta l’operatività penitenziaria.

                L’unitarietà del personale penitenziario va quindi perseguita attraverso una individuazione e poi condivisione di obiettivi che richieda la partecipazione delle varie componenti, ciascuna con la consapevolezza che il proprio compito trovi un completamento, o una pre-condizione in quello dell’altra.