CARCERI – LA SITUAZIONE DOPO L’INDULTINO

 

UN CIRCOLO VIZIOSO

 

Sovraffollamento, cattive condizioni sanitarie, pochi interventi per il reinserimento. Questo l’oggi. Ma il domani, tra riduzione della spesa e politiche ciecamente repressive, può essere anche peggiore.

 

 Aldilà dei suoi effetti concreti, il cosiddetto indultino varato dal governo all’inizio di agosto rappresenta un’opportunità per ragionare sulla situazione delle carceri, dato che nessuno può considerare risolutivo un provvedimento isolato di riduzione della popolazione detenuta. In primo piano si pone una questione politica, vale a dire come affrontare il fenomeno della criminalità, quale combinazione adottare tra forme di repressione e di prevenzione, in che modo rendere efficace l’effetto “deterrenza”.Sono i temi discussi in questi mesi anche dalla CGIL (ultimo, in ordine di tempo, il convegno promosso dalla confederazione della Lombardia il 27 giugno scorso, vedi www.lombardia.cgil.it ) che, assieme a diverse associazioni attive in quest’area sociale (SocietàINformazione, Gruppo Abele, Forum Droghe, Lila, Rete la libertà è terapeutica, Saman, Cnca lombardia, Antigone), si propone di contrastare la linea autoritaria dell’attuale governo in nome di politiche d’inclusione sociale e di tolleranza. Partiamo dai dati. La popolazione carceraria tocca oggi il suo massimo storico dal secondo dopoguerra in poi. Una dinamica che sembra dovuta agli effetti della legge Jervolino Vassalli del 1990, tramite il concetto di “dose media giornaliera”, che avrebbe portato i tossicodipendenti a pesare fino a quasi un terzo dei detenuti. E se le intenzioni annunciate dal vicepresidente del consiglio Gianfranco Fini per una maggiore repressione in tema di droghe dovessero trovare applicazione, tale percentuale diverrà ancora più consistente, peggiorando di conseguenza il sovraffollamento. Oltre che i tossicodipendenti, nelle carceri oggi si trova rinchiusa una buona rappresentanza dell’area dell’esclusione sociale, composta soprattutto da immigrati, malati psichici, persone senza fissa dimora, prostitute. Tre quarti dei detenuti ha un’istruzione non superiore alla terza media e più della metà non aveva alcuna occupazione prima della condanna. “Ovunque – sostiene Morena Piccinini, segretaria confederale CGIL – si osserva un rapporto inverso tra politiche sociali e risposte repressive : quanto più vengono smantellati servizi essenziali e ridotta la spesa relativa, tanto più è necessario dare enfasi alle strutture repressive, carceri e strutture di contenzione, in un circolo vizioso che si autoalimenta”. Una conferma viene dagli Stati Uniti dove oggi si contano più di sette detenuti ogni mille abitanti, appartenenti soprattutto alla popolazione nera dei ghetti delle metropoli. Venticinque anni fa il rapporto era di poco più di uno su mille, eppure in questo periodo non è aumentato il tasso di criminalità della popolazione né l’efficienza della polizia e della magistratura: sono solo state inasprite le pene ed è cresciuto il tasso dei recidivi. In prospettiva, secondo alcuni osservatori, la questione carceraria negli USA, a prescindere dalla politica adottata, è destinata a divenire dirompente, una vera e propria bomba ad orologeria che trae origine dalla combinazione tra la bassa età media dei reclusi e il tasso medio di recidività : finora le statistiche dicono che quando si mette in carcere un adolescente bisogna mettere in conto che, di fatto, gli si sta comminando una pena a vita. Negli ultimi anni la popolazione detenuta è aumentata pure nell’Europa occidentale (con la sola eccezione dell’area scandinava); un fenomeno dovuto anche all’influenza esercitata dal modello americano della “tolleranza zero”, spesso adottato come scorciatoia per la risoluzione di fenomeni sociali nuovi come la diffusione delle droghe e l’accelerazione dei flussi migratori. Il carcere può essere una soluzione per risolvere i problemi legati all’emarginazione sociale e contrastare la diffusione delle droghe?  Come si è espresso THE ECONOMIST in un articolo sull’argomento, l’evidenza dei dati suggerisce una risposta negativa, visto che “the prisons are a costly way to make bad persons worse” (le carceri sono una maniera costosa per rendere peggiori persone già cattive). A quest’insieme di ragioni vanno poi sommate le pessime condizioni di vita delle nostre carceri e la pratica assenza di pratiche volte al recupero e al reinserimento sociale dei detenuti. Il taglio della spesa operato dal governo ha decurtato  risorse per cure sanitarie nelle prigioni, per la formazione degli operatori, per l’applicazione concreta delle leggi volte al recupero dei detenuti, come quella del senatore Smuraglia che ne incentiva il lavoro retribuito. Le domande inevase per accedere ai benefici della legge Simeoni (sospensione della pena per reati minori) assommano oggi a 70.000, l’equivalente di due anni di lavoro degli attuali addetti giudiziari. A questo stato di cose corrisponde all’esterno un taglio degli interventi sul territorio, con lo smantellamento dei servizi pubblici che operano nell’area delle tossicodipendenze e dell’emarginazione in generale, e il contrasto di pratiche terapeutiche non repressive. Quali sono le strade alternative di fronte a una prospettiva di crescita a dismisura della popolazione detenuta e di un aumento del tasso della recidività dei suoi componenti?  Per Alessandro Malgara, Direttore Generale dell’Amministrazione Penitenziaria dal 1997 al 1999, è necessario depenalizzare i reati minori e organizzare con misure alternative la fase più delicata della pena, cioè la sua parte finale che è più vicina al reinserimento nella società. E, soprattutto, occorre “ammettere che per alcuni delitti il carcere non è la soluzione, per quelli legati alla tossicodipendenza innanzitutto”. A giudizio di Mauro Palma, presidente onorario di Antigone, le priorità da affrontare sono tre. “Primo, gestire al meglio le strutture di contenzione esistenti, seguendo modalità rispettose della dignità delle persone e tendenti a ridurre il fenomeno dei successivi “ritorni” in carcere. Secondo, arginare l’espansione della detenzione, che ormai riguarda settori sociali ben individuabili. Terzo, ridurre la richiesta di reclusione che viene dalla società.

 

 

ANNA AVITABILE

(da Rassegna Sindacale n°32 dal 4 al 10 settembre 2003)

 

 

 

LA SCHEDA

 

I NUMERI DEL DISAGIO

 

Dal “Rapporto sui diritti globali 2003”, nato dalla collaborazione tra CGIL e gruppo abele ed edito dall’Ediesse emergono con chiarezza le condizioni incivili in cui versano le nostre carceri. Al 31 gennaio di quest’anno 56.250 persone erano rinchiuse nei 205 istituti penitenziari del paese, che in teoria potrebbero contenere solo 41.324 detenuti. La situazione è peggiore per gli uomini rispetto alle donne e decisamente superiore alla media per le carceri delle grandi città. Il sovraffollamento risulta più grave solo in Grecia, Ungheria, Cipro e Romania. Su 56.000 reclusi, ben 12.000 erano in attesa del primo giudizio. Dal 1990 la popolazione carceraria è cresciuta in modo esponenziale: dai 29.000 di quell’anno ai 55.000 del 2001. “Solo nel dopoguerra” precisa il Rapporto, “il numero  dei detenuti aveva raggiunto le cifre attuali: 58.402 nel 1949, 73.818 nel 1945”. Aumenta anno per anno la velocità con cui si riempiono le carceri e il numero di persone condannate alla reclusione: nel 2001 si sono registrate circa 161.000 condanne, di cui 120.000 inferiori ad un anno e quasi 10.000 a meno di trenta giorni. Ovvio che gran parte di tali condanne siano state sospese. Le misure alternative alla detenzione hanno riguardato circa 32.000 persone  nel 2002, 25.000 nel 2001 e 22.000 nel 2000.

Le malattie più frequenti sono epatiti e disagi psichici gravi. Un terzo sono tossicodipendenti, di cui 1552 in trattamento metadonico. La Hiv è presente in almeno 1400 casi, di cui 192 con Aids conclamata. A fine 2002 gli stranieri erano 16.778, quasi il 30 per cento della popolazione complessiva. Infine, un dato : il braccialetto elettronico, introdotto a gennaio 2001, risultava applicato l’anno successivo solo a 25 persone. Il suo costo è stato di 140 milioni di euro.