“Modifica della Costituzione: la Carta violata”

Convegno della FP Cgil Sicilia e Nazionale su Riforma della Costituzione

Messina 24 maggio 2005


Relazione di Teodoro Lamonica

 
“Le leggi devono essere comuni e fatte con consentimento di coloro a cui toccano”.

 

Non lo scriveva Platone o il Beccaria, ma un autore considerato ben più leggero: il Boccaccio nel suo Decamerone. Mi è piaciuto iniziare questa mia breve introduzione alla nostra giornata di studio e di riflessione riportando questa citazione perché mi sembra che possa, in una certa misura, esprimere lo spirito che anima la stesura d’ogni moderna Carta costituzionale.

Lo stesso spirito che animò lo straordinario movimento partigiano nella sua lotta per la liberazione del nostro Paese dalla dittatura nazi-fascista, lo stesso spirito che di sicuro ispirò i nostri Padri costituenti, che erano sì l’espressione di culture e di ideologie fra loro diverse e a volte confliggenti, ma che allora furono in grado di stendere la sintesi più avanzata in termini di garanzie e di diritti di una democrazia.

Questa eredità preziosa, ancora viva e valida per i nostri tempi, rischia di essere dissolta da un esecutivo che ha provocato sinora in questo Paese delle profonde rotture sia sociali che nella democrazia, segnando una netta discontinuità con tutta la storia politica precedente.

Per tali motivi ci sembra oggi necessario avviare una discussione su temi rilevanti per il destino del nostro Paese e della nostra democrazia. Vogliamo parlare, infatti, del tentativo di violare la nostra Carta costituzionale disintegrando sia l’unità nazionale che quel sapiente sistema di equilibrio fra i poteri che i nostri Padri seppero creare.

Temi che toccano da vicino le condizioni concrete e il futuro di tutti i cittadini. Ed è per questo che riteniamo necessario coinvolgerne in questo dibattito il maggior numero possibile.

Parliamo, infatti, di regole, di assetti istituzionali in cui tutti dovremmo riconoscerci e dai quali dovrebbero scaturire le garanzie per l’intera collettività.

Oggi il Paese viene messo a dura prova: si tenta di piegare continuamente le istituzioni e la democrazia agli interessi di singoli gruppi e non a quelli generali di tutti i cittadini. Solo per far un esempio, la mancanza di chiarezza legislativa e la strenua ed egoistica difesa di interessi assai particolari fa in modo che il commissariamento, ormai pluriennale del comune e di numerosi altri enti di Messina, impedisca lo svolgersi di una “normale” vita democratica. Situazione ormai insostenibile specie in un momento in cui la città è devastata, come dimostrano anche le ultime inchieste giudiziarie, dal riemergere di inquietanti intrecci fra mafia-politica-istituzioni. E’ proprio nei momenti come questo che la città avrebbe bisogno di una guida politica seria e autorevole, di una classe dirigente capace e affidabile, cosa che nei fatti le è negata.

Tornando al tema oggi in discussione, vorrei ricordare che la CGIL, in un documento del febbraio 2001, quando il Centrosinistra stava discutendo della riforma del titolo V della Costituzione ha osservato:

“Nel corso dell’ultimo decennio il tema federalista è stato variamente evocato e agitato, quando non piegato a fini strumentali e a contingenti interessi politici. Quel tema in realtà non è stato congiuntamente elaborato e delineato secondo un modello coerente”.

E’ una riflessione che rimane tutt’ora valida e che, alla prova degli ultimi fatti, si è dimostrata anzi profetica.

Una delle grandi conquiste del costituzionalismo democratico moderno, frutto di secoli di lotte politiche e culturali, è la cosiddetta rigidità.

Le Costituzioni non sono normali leggi, prodotto della volontà della maggioranza del momento, ma contengono i principi e le regole fondamentali della convivenza comune, un minimo comune denominatore che definisce l’identità di un popolo. Nelle Costituzioni sono definite le regole democratiche, i diritti, le libertà, i doveri di solidarietà dei cittadini, le istituzioni fondamentali dello Stato. Perciò è essenziale che questi principi siano sottratti all’arbitrio delle maggioranze che per loro natura sono destinate a cambiare.

I vincitori delle elezioni hanno diritto di avere i poteri e gli strumenti per governare, per attuare il programma approvato dagli elettori.

Le Costituzioni devono stabilire limiti al potere dei vincitori (i limiti di ogni potere) e le istituzioni di garanzia che assicurino che gli sconfitti non saranno alla mercé dei vincitori, ma potranno di nuovo partecipare alla competizione democratica secondo regole certe e corrette. Le Costituzioni sono dunque di tutti: vincitori e sconfitti.

Garantiscono le libertà e i diritti di chi è politicamente e socialmente più debole (i più forti non ne hanno bisogno). E perciò non possono essere modificate senza il consenso di tutti o, almeno, della gran parte dei cittadini e di chi li rappresenta democraticamente!

Il 23 marzo il Senato ha approvato il disegno di riforma costituzionale con 162 SI e 14 NO. Com’è noto la legge approvata interviene sulla seconda parte della Costituzione cambiandone la forma. Tutti noi però sappiamo, e ce l’hanno ricordato anche illustri costituzionalisti in questi ultimi mesi, che ciò che viene cambiata è soprattutto la sostanza.

Si  mette, infatti, radicalmente in discussione l’universalità dei diritti, a cominciare da quelli alla salute e all’istruzione. Il tentativo non dichiarato è di instaurare una vera e propria “dittatura della maggioranza”, come ha denunciato Romano Prodi, mutuando l’espressione da uno dei padri della Costituzione americana: Alexander Hamilton. Ricordo che Hamilton coniò tale formula quando si ragionava sulla possibilità che il Presidente degli Stati Uniti potesse sciogliere la Camera dei rappresentanti e il Senato. Possibilità che venne negata nella stesura finale della Carta fondamentale americana che mantenne la separazione tra i due poteri. La citazione di Prodi fu e rimane, quindi, pertinente.

La riforma della Costituzione, così com’è stata concepita, porterebbe, infatti, a modificare profondamente i rapporti fra parlamento ed esecutivo - il quale, avendo la possibilità di sciogliere le Camere – avrebbe su di esse un potere di condizionamento troppo forte sulle sue decisioni. Senza parlare del controllo che l’esecutivo avrebbe sull’amministrazione della giustizia.

Questo il frutto sinora della “prima lettura” del testo di riforma costituzionale. Nei prossimi passaggi Camera e Senato si pronunceranno solo con un SI o un NO complessivo. Il risultato è che la revisione della Carta fondamentale del nostra Repubblica è stata fatta ostaggio da una maggioranza che l’ha sottratta al legittimo dibattito nel Paese e nelle aule parlamentari. L’immagine, infatti, dei cosiddetti “quattro saggi” che scendono dalla montagna con il testo della riforma già scritto da far approvare a scatola chiusa ai due rami del Parlamento è una umiliazione, non solo di tutte le nostre istituzioni democratiche ma anche della nostra storia repubblicana.

Questa riforma, che sembrava non dovesse veder mai la luce, diventa  invece sempre più reale e si confermano giuste le preoccupazioni di chi, come la CGIL e la maggior parte dei costituzionalisti, aveva lanciato l’allarme. Nello specifico, la legge prevede che la candidatura alla carica di “Primo Ministro” avvenga mediante il collegamento con i candidati o più liste di candidati alle elezioni alla Camera.

Il Primo Ministro illustra il programma ai rami del Parlamento, ma solo la Camera dei deputati si esprime con un voto. Sempre il capo dell’esecutivo può porre la fiducia e chiedere che l’aula parlamentare si esprima con priorità.

Inoltre, la Camera può sfiduciare il Primo Ministro con una mozione firmata da un quinto dei deputati se approvata dalla maggioranza assoluta: in questo caso vi sono le dimissioni, così come nel caso in cui  la mozione sia stata respinta con il voto determinante di deputati non appartenenti alla maggioranza.

Il Capo del governo nomina e revoca i ministri, determina (e non più dirige) la politica generale dell’esecutivo e ha il potere di “dirigere” l’attività dei ministri.

Riassumendo, si tratta quindi di un Primo Ministro che potrebbe definirsi “assoluto” perché detiene quasi pieni poteri. Viene, infatti, legittimato da una elezione diretta, può sciogliere le Camere a suo piacimento (non ha più bisogno della loro fiducia per insediarsi ma gli è sufficiente un voto sul programma) e determina la politica dell’esecutivo.

La norma “antiribaltone” prevista e la sfiducia costruttiva non cambiano la sostanza di questa figura, di fatto unica in Europa, perché ai poteri del Primo Ministro non si accompagnano contrappesi adeguati né il rafforzamento delle figure di garanzia.

In verità, in Italia oggi non vi è alcun bisogno di rafforzare i poteri del Presidente del Consiglio. Si avverte semmai l’esigenza opposta: impedire che una maggioranza politica diventi maggioranza delle regole, stabilire le regole di fondo sull’incompatibilità fra affari e politica, garantire il pluralismo dell’informazione.

Ritornando all’esame dell’articolato, il Presidente della Repubblica diventa una figura di mera rappresentanza: per il nuovo articolo 87 non rappresenta più l’Unità Nazionale ma è garante dell’ “Unità Federale della Repubblica”, non ha più il potere di sciogliere le Camere, di dare l’incarico di formare il governo né di autorizzare la presentazione di disegni di legge di iniziativa del governo. Si può sicuramente affermare, come ama dire il senatore a vita e Presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro, che  “viene lasciato in canottiera”.

La Corte Costituzionale, rimane invariata nel numero dei componenti, ma viene modificata nelle modalità di composizione. Aumentano, infatti, i giudici di nomina politica che passano da 5 a 7 (3  nominati dalla Camera e 4 dal Senato Federale integrato).

Il Presidente della Repubblica, a sua volta, ne nomina 4 e così la Magistratura.

Cambia profondamente l’iter legislativo: il bicameralismo perfetto ha fino ad oggi dato garanzie rispetto alle formulazioni delle leggi. Ora si passa al bicameralismo differenziato perché ci saranno leggi sulle quali l’ultima parola spetta alle Camere (materia di legislazione esclusiva dello Stato) e altre su cui, invece, spetta al Senato Federale (materia di legislazione concorrente), altre ancora bicamerali e con meccanismi complicatissimi di rinvio. Non è dato di sapere chi avrà l’ultima parola quando si affronteranno leggi che riguardano più materie.

Le Regioni acquisiscono la potestà legislativa esclusiva in materia di Sanità, scuola e Polizia amministrativa regionale e locale e su ogni altra materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.

Questa formulazione creerà certamente conflitti e confusione di ruoli nelle competenze.

Inoltre, si consente di smantellare l’unitarietà e l’universalità di diritti fondamentali, di esasperare le disparità tra zone ricche e zone povere del Paese.

Anche riguardo ai lavoratori pubblici, vi potrebbero essere delle conseguenze. Potrebbe, infatti, essere messa in discussione l’unitarietà del contratto collettivo nazionale di lavoro, a cominciare dalle risorse economiche che non sarebbero più destinate omogeneamente a  tutti i lavoratori indipendentemente dalla regione in cui vivono.

La discussione e le proposte del Ministro Maroni – ricordiamo, ad esempio, quelle sulle gabbie salariali - vanno proprio in questo senso. Dietro a tali soluzioni istituzionali serpeggia un’idea precisa relativa del federalismo e degli interessi sociali che riguarda direttamente anche il sistema delle relazioni contrattuali, vale a dire la destrutturazione del sistema contrattuale, alimentando un equivoco interessato a proposito del decentramento contrattuale.

Un conto è prevedere un sistema decentrato di relazioni contrattuali finalizzato all’introduzione di differenziazioni virtuose dentro un quadro di coerenze nazionali, sancito dai contratti nazionali di categoria. Tutt’altra cosa è dar vita ad un sistema disarticolato di discipline contrattuali differenziate sul territorio senza alcun riferimento unitario nazionale.

Ma come rapportare il disegno di uno Stato federale con le questioni dell’autonomismo regionale siciliano?

La Regione siciliana fino ad oggi ha manifestato un ruolo accentratore, pervasivo sul territorio, svuotando delle loro prerogative le autonomie locali. Ha creato un forte neo-centralismo regionale che si sostituisce a quello statale lasciandone immutati i limiti e contraddizioni.

L’autonomia regionale in Sicilia non è stata in grado di esprimere le sue potenzialità, non ha consentito di recepire in modo agile le leggi nazionali,  neanche quelle innovative.

E quando, con estremo ritardo, ne ha approvata una come la legge 10 che, recependo la Bassanini, inserisce particolari elementi di novità in termini di snellimento dell’attività amministrativa, di responsabilità del procedimento e di trasparenza, ha fatto di tutto per non attuarla.

I ritardi di recepimento delle leggi di riforma nazionale, hanno aperto un dibattito sulla valenza dell’autonomia siciliana che non poteva che approdare ad un’unica conclusione: quando non si è trattato di un’occasione mancata, è stato sicuramente un vero e proprio processo frenante rispetto alla necessità di attuare modelli innovativi utili ad anticipare i segni dei tempi e a dare impulso ad una politica di sviluppo nella nostra Isola.

A quasi sessant’anni dalla promulgazione dello Statuto speciale siciliano, questa considerazione ha fatto sì che i deputati dell’Assemblea regionale introducessero nella nuova Carta statutaria la previsione che norme nazionali di rilevanza politica, sociale ed economica per l’intero Paese vadano recepite entro sei mesi dalla loro promulgazione e, in mancanza di tale atto, che si applichino automaticamente.

Accanto a questo, l’aver mantenuto inalterato il ruolo del Commissario dello Stato, conferma i limiti della classe politica dirigente siciliana, che pur di non assumersi pienamente le sue responsabilità ricorre all’alibi del Commissario.

Il nuovo Statuto tuttavia, contiene alcuni punti che se attuati e non solo annunciati, possono essere considerati positivi. Viene, infatti, riconosciuto il valore prioritario del principio di sussidiarietà, che dovrà ispirare l’attività e l’organizzazione della macchina regionale sul fronte dei rapporti istituzionali.

Ancora, viene ribadito l’impegno di lottare, insieme allo Stato, contro ogni violenza di tipo terroristico e criminale.

Compresa la mafia? Potremmo chiederci.

Infine, si individua per la nostra regione una proiezione internazionale, nell’ambito dei Paesi mediterranei che, in vista dell’attuazione dell’Area di libero scambio del 2010, renderebbe l’Isola un potenziale ponte tra l’Unione europea e i Paesi rivieraschi che non ne fanno parte.

A fronte di ciò però, mancano sicuramente le scelte e le azioni concrete per far sì che la Sicilia assuma questo ruolo che non è solo un fatto istituzionale. Il problema non è lo statuto, che può anche essere considerato positivo, ma piuttosto le scelte politiche, gli indirizzi che saranno dati per la crescita della nostra regione.

Concludendo, per ritornare alle questioni legate a questo modello di assetto istituzionale, è chiaro che c’è un disegno strategico a cui bisogna opporsi in modo forte, un disegno che è l’opposto di quel federalismo solidale inteso non come riduzione ma bensì come espansione dei diritti e della partecipazione.

C’è, inoltre, una concezione di welfare ridotta al minimo, di diritti che vengono affievoliti, di capitalismo compassionevole che questo governo ha fatto suo e che è l’opposto dell’affermazione forte dei diritti sociali contenuti nella nostra Costituzione.

Per questo bisogna essere pronti al referendum. Bisogna prepararsi a vincerlo, non solo con iniziative di mobilitazione diffuse, ma recuperando la memoria e i valori che devono sostenere la nostra capacità di lotta.

Un’ultima considerazione. Per noi il federalismo è un modo per riformare uno Stato nazionale, non per dissolverlo; il federalismo è un modo per governare e amministrare meglio; il federalismo è un modo per coniugare autogoverno e cooperazione e per assicurare una più efficace azione sociale.