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   Le ragioni per cui 
      avviamo questo confronto  interno alla nostra organizzazione e quelle per 
      cui abbiamo sollecitato contributi di istituzioni e organizzazioni sociali 
      diverse, risiedono, nella scelta della nostra categoria maturata assieme 
      alla Cgil, di porre in termini diversi la discussione e l’iniziativa nel 
      Mezzogiorno. Il titolo che vi abbiamo 
      proposto si muove in questa direzione; consapevoli che l’ottica di 
      riferimento indicata, sia comprensibile e condivisibile  dalla maggioranza 
      dei cittadini meridionali, che si presentano sulla scena nazionale ed 
      internazionale avanzando crediti, innanzi tutto nei confronti dello stato 
      nazionale che, storicamente, è stato molto contraddittorio o poco coerente 
      ed attento (per usare un’espressione eufemistica), nella politica per il 
      Mezzogiorno. Senza voler ripercorre 
      la storia, per ragioni di tempo ma soprattutto perché non né ho la 
      competenza, credo che non vi siano dubbi, così come sosteniamo nel 
      documento di base del dipartimento del Mezzogiorno, che la nascita 
      dell’Italia industriale, nel suo processo di sviluppo escluse il sud del 
      paese, che unitamente al fenomeno delle emigrazioni transoceaniche delle 
      popolazioni meridionali, furono i fattori che agli inizi del 900 
      contribuirono al determinarsi della “questione meridionale” affrontata in 
      quegli anni con una “politica del risarcimento”, e così continuata 
      nel secondo dopoguerra.  Il “Risorgimento 
      Meridionale” esprimeva alle origini, sicuramente una “domanda di stato”, 
      alla quale, il meridionalismo della politica del risarcimento ha creduto 
      di poter rispondere semplicemente con un’offerta statale di mezzi 
      finanziari. Da qui il sostanzioso 
      trasferimento finanziario verso il sud, che connotò la nuova “democrazia 
      italiana” come una sorta di “democrazia oblativa”, perché parte 
      integrante della costruzione di un Welfare State all’italiana. 
       Nello scorso 
      quarantennio vi è stata per questa via, una crescita di reddito 
      considerevole. La crescita del reddito, però, non vuol dire 
      necessariamente sviluppo, se per sviluppo intendiamo una maggiore capacità 
      di produzione endogena, possiamo definire la situazione meridionale come 
      di sviluppo con scarsa autonomia. Certo il reddito 
      industriale è aumentato, ma il suo contributo alla formazione del reddito 
      complessivo degli abitanti meridionali resta basso, come pure il 
      contributo del Sud alla produzione industriale del Paese. Reddito, consumi, ma non 
      capacità, in altre parole, di “produrre” reddito, costruendo una società 
      più agiata ma non in grado di mantenersi da sé.  La dotazione 
      infrastrutturale, d'altro canto, in campo economico (risorse energetiche e 
      idriche, comunicazioni, servizi alle imprese ecc.) e in campo sociale 
      (istruzione, sanità, servizi ecc.) è cresciuta meno dell’incremento del 
      reddito.  L'estensione 
      dell'intervento pubblico, che si è verificata nel dopoguerra, ha ampliato 
      le opportunità per la classe politica di destinare le risorse in modo di 
      massimizzare la loro divisibilità a fini di consenso.  In questa area 
      rientrano proprio i beni comuni, che sono per loro natura non 
      divisibili, e che sono essenziali per qualificare l'ambiente sociale ed 
      economico: la scuola, la formazione, i servizi sociali, i servizi alle 
      imprese.   
      Non si può governare una 
      società complessa e differenziata con interventi centralizzati che non 
      fanno assumere responsabilità alle istituzioni locali e regionali e quindi 
      finiscono per aumentare il circolo vizioso della dipendenza. 
       
      Senza una maggiore 
      capacità di governo decentrata e una società civile più attiva sulla scena 
      sociale e, nello stesso tempo autonoma dalla politica, non può esserci 
      sviluppo. Essa non implica un ritorno al passato dell’intervento pubblico 
      e la rinuncia all’iniziativa privata a sostegno dello sviluppo, ma può 
      invece stimolare la responsabilizzazione della classe politica e della 
      società locale, e può riconciliare le esigenze della solidarietà con 
      quelle dell'efficienza. 
      Come scrive Piero 
      Bevilacqua, nella “ Breve storia dell’Italia Meridionale”,valeva 
      nell’ottocento vale tutt’oggi: che anche “una rivoluzione se passiva” non 
      poteva allora e non può oggi avere successo perchè “ subita e non 
      intrapresa dalle forze sociali  del Mezzogiorno”. Questo modello oblativo/assistenziale 
      è entrato in crisi con la fine della cosiddetta “Prima Repubblica” in un 
      difficile momento del settore politico ed istituzionale. 
      Gli anni novanta, 
      infatti, hanno visto solo a fasi alterne modelli positivi di sviluppo del 
      Mezzogiorno. Il secondo Governo 
      Berlusconi ha letteralmente affossato tutte le speranze e le opportunità 
      di crescita dell’Italia Meridionale, inaugurando una politica non oblativa, 
      ma potremmo dire, punitiva. Dal drastico taglio di trasferimenti 
      agli Enti Locali ai condoni edilizi, che nel sud significa premiare 
      l’illegalità per rimpinguare le casse dei Ministeri; dal sud come “cavia 
      passiva” di un diluvio di Grandi Opere non realizzate e/o non 
      realizzabili, alla necessità di dover convivere quasi amorevolmente con la 
      mafia, dalla devolution come modello di egoismo regionalistico e strumento 
      di scambio politico con la Lega, al sud come gigantesca portaerei della 
      guerra verso l’oriente, ad una selvaggia 
      privatizzazione, penalizzando lo sviluppo di un’area che aveva e 
      mantiene possibilità e occasioni economiche e produttive d'alto livello 
      che  sono diverse da quelle che, scioccamente, sono indicate da ambienti 
      sociali e politici obsoleti che immaginano la nostra area meridionale  
      come un luogo “circoscritto” e “caratteristico” che può avere sviluppo 
      solo in produzioni “tipiche e locali”, e non, in un processo produttivo 
      corposo capace di competere nella globalizzazione, pur non negando anzi 
      esaltando le specificità e le opportunità presenti sul proprio territorio 
      a partire dalla ricchezza naturale e culturale. Bisogna aprire, anche un 
      confronto con l'UE che sembra non mantenere le scelte d'intervento 
      finanziario e produttivo nei confronti delle nostre aree meridionali 
      com'era già stato preventivato. Nello stesso tempo affermare il 
      Mezzogiorno come luogo privilegiato di una politica euro-mediterranea che 
      possa contare su una banca d’affari del mediterraneo da costruire ed 
      allocare nel Mezzogiorno, con un’intesa che veda coinvolti: la Bei, le 
      Regioni, gli imprenditori.  E’ nell’ambito di questa 
      scelta di un ruolo del Mezzogiorno nella politica euromediterranea che 
      deve svolgere una funzione conseguente, il Coordinamento delle Regioni 
      Meridionale, che è stato costituito recentemente che noi abbiamo salutato 
      come necessario nella misura in cui intende coinvolgere i soggetti sociali 
      e gli stessi paesi a cui vuole rivolgersi.  Nel Mezzogiorno vi è 
      consapevolezza attorno a questi punti, decisivi, per impostare i 
      ragionamenti nuovi sullo sviluppo e tutto ciò ha portato, nel recente 
      passato, ad una fase di lotta che per ampiezza e continuità ha ricordato 
      il periodo dell’occupazione delle terre e dei movimenti per la rinascita 
      economica e sociale. Nelle lotte del 
      Mezzogiorno di questi anni, sono stati indicati obiettivi di profonda e 
      radicale modernità simile alle battaglie sociali che ci sono state in 
      Italia e negli altri paesi sviluppati.  Pensiamo allo scontro 
      sul modo di produrre che c’è stato nei settori industriali e 
      nell’agricoltura, all’importanza delle lotte per la difesa dell’ambiente, 
      dello stato sociale e del ruolo attivo del pubblico, alla salvaguardia dei 
      livelli occupazionali e al superamento del precariato, allo scontro duro, 
      difficile e spesso amaro che è stato costruito nella lotta alla 
      criminalità organizzata.  Insomma: un Mezzogiorno 
      protagonista attivo per il rinnovamento del nostro paese. Ovviamente, quest’inversione 
      di tendenza nella battaglia meridionalista si è potuta determinare perché 
      è cambiata la cultura del sud del paese e quest’area si è proposta come 
      luogo ove è possibile, nell’immediato, un mutamento corretto dei 
      comportamenti e dell’agire dei diversi attori sociali per costruire una 
      società giusta ed equamente sviluppata. Sono, in altre parole, 
      avvenuti”spostamenti molecolari” che hanno determinato rivolgimenti negli 
      assetti politico istituzionali che ora hanno bisogno di trasformarsi in 
      iniziative di governo che puntino alla trasformazione della società 
      meridionale. Tutto questo è avvenuto 
      contro gli orientamenti del governo nazionale che invece, nella sua azione 
      concreta di politica economica, si è rivelato come il nemico peggiore del 
      Mezzogiorno perché non è intervenuto per favorire elementi di sviluppo; ed 
      ha anche operato affinché le stesse situazioni sociali e produttive 
      relativamente positive, fossero messe in discussione aggravando così la 
      condizione di vita di grandi masse, favorendo il degrado ulteriore di 
      intere aree, mettendo in discussione diritti sociali e individuali 
      acquisiti, lasciando mano libera all’azione della criminalità organizzata 
      che si è rivelata non come un elemento di arretratezza culturale, ma come 
      un dato organico all’attuale modello di sviluppo. Il ”blocco del nord”, 
      rappresentato dal governo, ha lavorato per l’accentuazione degli squilibri 
      e lo ha fatto nonostante le condizioni politiche favorevoli in cui si era 
      trovato ad operare dopo la vittoria del centrodestra nelle elezioni del 
      2001. Oggi, la situazione è 
      peggiorata come abbiamo prima accennato e le difficoltà tendono ad 
      accentuarsi perché non si colgono mutamenti significativi nell’iniziativa 
      del governo. Ci sono gli elementi di 
      crisi produttiva  e prosegue l’azione negativa del governo che, impedisce 
      l’afflusso di masse finanziarie che potrebbero essere  impiegate 
      nell’azione riformatrice. I finanziamenti, sono 
      elargiti nelle opere d'infrastrutturazione in modo insufficiente e 
      premiano le organizzazioni criminali. L’ammodernamento della 
      Salerno-Reggio Calabria, è affrontato con una tale lentezza che 
      l’autostrada potrebbe essere terminata in tempi biblici, e la tanto 
      decantata “legge obiettivo” spezzetta gli appalti in infiniti subappalti 
      che poi sono acquisiti da aziende assolutamente inadeguate molto spesso in 
      “odore” di camorra. Ovviamente, questa 
      scelta non si limita soltanto alla vicenda della Salerno-Reggio Calabria, 
      ma é diffusa in tutta l’area meridionale dove i controlli sono scarsi e il 
      “pubblico” inteso come livello alto di controllo, non svolge appieno il 
      proprio ruolo, anzi spesso è direttamente coinvolto nell’azione 
      spartitoria, che comporta la divisione dei lavori tra aziende ”amiche” 
      sostenute da politici locali e nazionali. Immaginiamo con terrore 
      cosa potrebbe accadere se davvero dovesse andare in appalto la costruzione 
      eventuale del ponte sullo stretto di Messina. L’azione di giusta 
      repressione nei confronti della criminalità organizzata, sta portando 
      risultati con l’indebolimento del potere criminale di alcuni clan 
      camorristico-mafiosi. Si pone però il problema di modificare le condizioni 
      di vita e i rapporti sociali nel Mezzogiorno, che favoriscono un’idea che 
      sia più facile e produttivo lavorare per le organizzazioni criminali, 
      piuttosto che schierarsi nella difesa della legalità.  In questo quadro, 
      assieme ad interventi di carattere economico, va sviluppata un’idea di 
      legalità di cui il nostro sindacato è portatore. Per queste ragioni, 
      condividiamo la rinnovata affermazione del Presidente della Regione 
      Campania, Antonio Bassolino: “Da Napoli, aggiungo, dal Sud non si deve 
      fuggire ma moltiplicare responsabilità ed impegno per la  rinascita e una 
      vita sociale sempre più democratica”. Abbiamo già detto che 
      per un diverso sviluppo e per sconfiggere la criminalità organizzata; il 
      lavoro deve trovare consolidamento e dignità.  Di qui la necessità di 
      una battaglia di tutti, ad iniziare dalla nostra categoria, contro il 
      lavoro precario e per superare, da subito, le condizioni in cui si trovano 
      ad operare un  numero elevato di lavoratori dei nostri settori.  Questa questione solleva 
      un primo tema importante che è quello del modo in cui la spesa pubblica é 
      erogata e delle strutture preposte alla verifica complessiva del modo in 
      cui i fondi pubblici sono utilizzati, i tipi d'appalto, i costi dello 
      stesso, la qualità del servizio che é fornito. La questione, delle 
      disponibilità finanziarie, per gli enti locali è diventata uno dei punti 
      più insopportabili della politica economica del governo, da cui emerge la 
      consapevole scelta antimeridionalista. Ciò avviene in una 
      situazione in cui, i trasferimenti dallo stato agli enti locali sono 
      diminuiti, in ragione di una scelta tesa a ridurre il ruolo corretto dello 
      stato nei confronti dei cittadini, a favorire l’iniziativa privata che 
      spesso nei settori dei servizi ha contiguità con l’illegalità, a spostare 
      le masse finanziarie disponibili verso aree specifiche del nostro paese 
      dove si esprimono con maggiore corposità gli interessi, non solo politici, 
      degli uomini del centrodestra.  La riduzione dei 
      servizi, la loro esternalizzazione, determina una perdita di qualità e 
      l’indebolimento dell’ampiezza dei diritti dei lavoratori a causa del 
      meccanismo di appalto che è “al massimo ribasso”. Con queste scelte, la 
      credibilità  democratica degli enti locali viene messa in discussione. In realtà, stiamo 
      assistendo ad una politica che è priva di strumenti adeguati sul terreno 
      dell’aumento dell'entrate finanziarie stabili nelle casse dello stato, 
      perché il governo attua la politica dei condoni come tappabuchi di 
      momentanee, ma, frequenti difficoltà di bilancio dovute a mancati 
      accertamenti  fiscali e ad una politica di taglio delle tasse che premia i 
      ceti economicamente più elevati con danni per tutti gli altri cittadini 
      contribuenti. La discussione con la 
      relativa contrapposizione tra il ministro dell’economia Domenico 
      Siniscalco e il governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio,che ha 
      portato, come sapete alle dimissioni del Ministro, si auspicano anche 
      quelle di Fazio,(ovviamente non sono afflitto da questo episodio, in 
      quanto non credo che Siniscalco abbia modificato in meglio la politica 
      economica e l’attenzione del Governo verso il mezzogiorno) non solo, non 
      ha portato al varo di una buona legge sul risparmio, da parte del governo, 
      ma di fatto ha ritardato la discussione sulla finanziaria 2005 che si 
      presenta ancora una volta come una misura insufficiente a coniugare rigore 
      e sviluppo e a tutelare gli interessi dei lavoratori e dei pensionati. La manovra di 21,3 
      miliardi con nuovi tagli alla sanità e agl’enti locali, ha un solo pregio 
      quello di essere già stata bocciata da tutti, dalla comunità europea per 
      il sospetto di nuovi condoni, dagli stessi alleati di governo, passando 
      per gli enti locali e ovviamente per le organizzazioni sindacali,perché 
      non è possibile immaginare che con queste proposte ci possa essere in 
      futuro più occupazione,più sviluppo,più democrazia,maggiori opportunità 
      per tutti di vivere in un paese e in una società migliore. 
       D’altro canto da un 
      governo che si trascina verso una fine più insipiente che mai, non si può 
      attendere altro che il peggio di quanto ha prodotto nei quattro anni di 
      governo, fin ora capace d’iniziativa solo per leggi d’interesse personali 
      del premier e soci litigioso fino all’immobilismo quando si è trattato di 
      affrontare i veri nodi del paese.   
      Si prospetta così un 
      ulteriore drammatica diminuzione delle risorse economiche a disposizione 
      del Mezzogiorno che aveva già prodotto la perdita di posti di lavoro, per 
      i tagli  imposti dal governo, secondo la teoria che la riduzione del ruolo 
      dello stato avrebbe favorito uno sviluppo economico più adeguato. Così, ovviamente, non è 
      accaduto, come non era successo nei paesi dove la teoria del liberismo 
      estremo tipica dei neocon americani ha generato disastri infiniti, non 
      solo; ma nel nostro Mezzogiorno la diminuzione dei trasferimenti che si è 
      tradotta in un minore finanziamento disponibile per singolo abitante, in 
      ragione di uno scellerato “patto di stabilità”, ha portato ad un degrado 
      che è diventato in molte aree, insopportabile, nonostante le dichiarazioni 
      di Berlusconi sulla ricchezza del nostro paese, compresa quella sommersa.
       Questa situazione, 
      aggravata da politiche sbagliate in molte regioni, ha praticamente 
      sfiancato il tessuto economico meridionale, che ha subito i disastri che 
      abbiamo accennato all’inizio, ha colpito in particolare la piccola e media 
      impresa che in alcune aree costituiva un terreno di sviluppo e 
      d'occupazione stabile e che oggi vive in grandi difficoltà.   
       Se a ciò si aggiunge il 
      “peso” e il “ruolo” della criminalità organizzata, nella vita economica e 
      produttiva del mezzogiorno ci si spiega la grave tendenza in atto, 
      rivelataci dalla stampa, della fuga d'imprese meridionali sane e 
      disponibili a misurarsi in un mercato regolato, verso le aree del nord, 
      provocando così un'ulteriore rottura della coesione sociale. Tutto ciò ha accentuato 
      il deficit di democrazia nel Mezzogiorno, perché gli enti locali si sono 
      trovati nella condizione di non poter svolgere adeguatamente la loro 
      funzione di regolatori delle disuguaglianze sociali, spesso costretti a 
      dover tagliare i servizi di pubblica utilità, a volte a dover introdurre 
      forme di tassazione locali che sono vissute come insopportabili da parte 
      dei cittadini. La crisi democratica é 
      soprattutto relativa al fatto che, tutta la politica pubblica, nel 
      Mezzogiorno, è in difficoltà e troppo spesso il cittadino/lavoratore è 
      solo davanti ai problemi economici e sociali perché diminuiscono le 
      assistenze, da quelle a sostegno del reddito di cittadinanza come gli 
      interventi in favore di chi non è in grado di provvedere compiutamente al 
      pagamento degli affitti, all’azione regionale per l’edilizia popolare 
      abitativa che registra un rallentamento spaventoso nel sud con 
      l’incremento della degrado degli immobili spesso gestiti da elementi 
      criminali, alla difficoltà crescente nella politica di sostegno nei 
      confronti degli anziani che si traduce in un aumento dei carichi 
      familiari. 
      Abbiamo accennato alla 
      crisi del welfare locale determinata dalle scelte governative, che si 
      aggrava se affrontiamo il tema della sanità e delle sue disfunzioni. La modifica del titolo V 
      della Costituzione, ha portato il trasferimento di competenze alle regioni 
      che per la sanità significa gestione diretta dei fondi e del loro impiego. A questa scelta, si è 
      aggiunto il taglio dei trasferimenti su cui abbiamo posto l'accento, 
      determinando nel settore sanitario meridionale, un intreccio tra 
      difficoltà, inefficienze e illegalità che di nuovo si calano 
      oppressivamente nei confronti dei cittadini. I deficit sanitari, sono 
      molto elevati per ogni singola regione e questi sono stati in realtà in 
      parte subiti e in parte tollerati, dai centri politici del Mezzogiorno 
      che, spesso, hanno lasciato letteralmente deperire grandi e qualificate 
      strutture non utilizzando la strumentazione scientifica a disposizione e 
      al tempo stesso, abbassando la qualità dell’assistenza. Tutto ciò ha favorito il 
      potenziamento di cliniche private, spesso gestite con capitali di dubbia 
      provenienza, verso le quali sono costretti ad indirizzarsi gli utenti che, 
      in questo modo, subiscono un'ulteriore diminuzione di reddito disponibile 
      quando non sono addirittura costretti ad attendere tempi memorabili per 
      ottenere un’assistenza che si rivela di scarsa qualità, a cercare un 
      intervento sanitario pubblico in altre zone del paese o addirittura 
      all’estero. Ciò avviene, nonostante 
      vi sia nel Mezzogiorno una vasta area sanitaria a volte dotata d'alta 
      specializzazione. 
      Quest'attacco ai beni 
      comuni e primari, al ruolo del pubblico teso a migliorare le condizioni di 
      vita dei cittadini, diventa palpabile se affrontiamo la questione della 
      penuria d’acqua, di cui sia ben chiaro il Sud e ricco, che nel Mezzogiorno 
      diventa sempre più drammatica, non solo perché questo bene non è 
      compiutamente a disposizione dei cittadini, e con intere aree che godono 
      dell’utilizzo dell’acqua, spesso, secondo un tempo indefinito; ma anche 
      perché la persistenza di quest'inefficienza si traduce negativamente nelle 
      produzioni agricole, nelle possibilità di sviluppo e di lavoro per intere 
      aree che invece deperiscono. Come stanno, dunque, le cose? La risposta è 
      semplice: cattiva gestione delle risorse, incapacità di realizzare 
      infrastrutture efficienti, sprechi (vecchi acquedotti solo in parte 
      rinnovati) e speculazioni. Servono investimenti per le infrastrutture 
      (impianti moderni di distribuzione), un radicale riordino dei poteri e 
      delle competenze (troppe autorità, conflittuali e irresponsabili), una 
      diversa gestione del territorio da parte di Stato e Regioni. Altrimenti, 
      continuando il caos, ne avranno danni i cittadini e le imprese (agricole e 
      manifatturiere) e vantaggi i gestori di clientele e gli speculatori, 
      mafiosi compresi. Nel corso dei decenni, questo problema non è mai stato 
      affrontato, seriamente, a nessun livello anche perché, una scelta coerente 
      avrebbe condotto ad un conflitto con un vasto sistema d'interessi privati, 
      spesso, collusi con organizzazioni illegali abituati a gestire l’acqua 
      come fonte di profitto. 
      Le stesse strutture 
      degli enti preposti agli acquedotti, si sono in molte occasioni, limitate 
      a gestire l’esistente senza pensare a giuste modifiche che potessero 
      migliorare la vita di migliaia di cittadini. Questa voluta 
      inefficacia ha permesso che sul bene acqua maturassero interessi corposi a 
      tal punto che ci troviamo nella situazione per cui alcuni enti rischiano 
      di vedersi privatizzati senza che vi sia una forte opposizione se non 
      quella sviluppata da alcune nostre organizzazioni locali che  
      intervengono, quasi in solitudine, nel difendere l’utilizzo pubblico e 
      gratuito di un bene primario. In realtà, una 
      concezione diversa del modo in cui é utilizzato questo bene e degli 
      interventi necessari per accrescerne la produzione e la ricerca, 
      porterebbero le stesse eventuali aziende pubbliche a divenire imprese, 
      tecnologicamente importanti, nella costruzione degli impianti e in 
      generale nelle opere d'infrastrutturazione; in questo caso, le aziende 
      pubbliche potrebbero costituire consorzi in grado di concorrere con altre 
      imprese a livello internazionale, porre l’Italia e il Mezzogiorno, nella 
      condizione di divenire un interlocutore privilegiato nell’area 
      mediorientale, in uno scambio, che potrebbe ridurre i costi sopportati 
      dall’Italia per le proprie necessità energetiche. 
      Vi è, 
      ancora, parziale consapevolezza attorno a questi temi, ed occorre lavorare 
      perché, dal movimento sindacale, esca un allarme sulla necessità di 
      garantire l’esistenza equilibrata di un bene come l’acqua, che è 
      essenziale per la vita umana. 
      Vanno sconfitte, perciò, 
      nel nostro paese, tutte le tendenze a rendere sempre più privatizzabile 
      l’acqua ad iniziare da quella potabile che é sfruttata da una marea 
      d'aziende che hanno solo funzioni di percettori di una rendita su di un 
      bene che dovrebbe appartenere alla categoria dell’inalienabilità. Oggi il tasso 
      d'occupazione al Mezzogiorno è pari al 44% e, dopo una graduale risalita 
      che ha origini nel 1996 (era al 40,4%) appare in fase di stagnazione” e 
      dei 2,2 mln di disoccupati in Italia, più della metà sono concentrati nel 
      Mezzogiorno, in percentuale il 64,2%. In sintesi 2/3 della disoccupazione 
      generale si condensano in poco più di un terzo del territorio nazionale. 
      (Fonte: Istat, Svimez e Cerst- Università Cattaneo).  Il quadro d’insieme non 
      sembra lasciare molte speranze. Nonostante questi dati, 
      oggi il Sud ha ancora un vantaggio strutturale rispetto al Nord: quello di 
      avere nel complesso della popolazione, più giovani per effetto di un 
      processo d’invecchiamento della popolazione meno accentuato. Tali risorse 
      vanno salvaguardate e tale vantaggio competitivo va conservato! Bisogna quindi aumentare 
      quantità e qualità del lavoro nel Mezzogiorno e creare le condizioni 
      affinché i talenti migliori rimangano, scommettendo anche loro 
      sull’inversione di tendenza rispetto al passato, riducendo quelle 
      migrazioni che creano perdite enormi in termini economici e d'opportunità 
      di crescita. Questo significa creare servizi pubblici in grado di 
      collaborare sinergicamente con la scuola, le strutture private ed i 
      servizi delle organizzazioni d'impresa nella promozione di un nuovo 
      apprendimento.  Per vincere questa 
      scommessa è necessario abolire quell’idea di Mezzogiorno tutta incentrata 
      sulla straordinarietà e costruita sull’eccezionalità delle procedure che 
      hanno tra l’altro alimentato i poteri criminali e il loro rapporto con la 
      politica; bisogna abolire la scelta scellerata di questo governo che ha 
      limitato investimenti sfruttando i fondi strutturali dell’unione europea 
      che da aggiuntivi si sono sostituiti a quelli della spesa pubblica; 
      bisogna investire nei giovani, affinché diano il loro contributo alla 
      crescita e al futuro del Mezzogiorno. Ovviamente i giovani non vanno 
      penalizzati nella loro dignità con lavori precari, a termine, in affitto, 
      senza copertura previdenziale, con impieghi di bassa qualità dove la 
      spersonalizzazione è la regola.  Il rimedio, non è il 
      ritorno a politiche assistenziali che da tempo e per primi i meridionali 
      hanno rifiutato.  Il Mezzogiorno deve 
      candidarsi ad essere significativamente attivo, sia negli interscambi che 
      vedono protagonista il continente asiatico sia nella prossima area di 
      libero scambio mediterraneo. É da qui che occorre partire: pochi grandi 
      progetti che puntino al risultato e su cui le Regioni, coordinate dallo 
      Stato, convergano  Sono in gioco non solo 
      la visione di prospettiva per l’area, ma anche le politiche nazionali per 
      la competitività, dentro le quali il Mezzogiorno abbia un ruolo peculiare.
      Come Sindacato, riteniamo, perciò, necessario un programma d'investimenti 
      prioritari “integrati e coordinati” che punti non solo a ripianare il 
      deficit pregresso di quantità e qualità delle infrastrutture fisiche 
      (settore idrico e smaltimento rifiuti, energia elettrica, reti di 
      trasporto, in particolare ferroviario), ma anche sul rapido sviluppo 
      delle infrastrutture immateriali: banda larga e strutture di ricerca e 
      sviluppo tecnologico, essenziali entrambi, per favorire l’innovazione, che 
      ha un ruolo di primo piano per lo sviluppo del Mezzogiorno e per una più 
      elevata competitività del Paese. La questione riguarda la prossima 
      finanziaria e la sua capacità di reperire ed attivare le risorse 
      necessarie per far crescere il Mezzogiorno ed il Paese, ma riguarderà 
      soprattutto il nuovo governo che uscirà dalle prossime elezioni politiche.
 Tutti questi aspetti che 
      ci siamo permessi di porre alla vostra attenzione, descrivono un’area, 
      quella meridionale, certamente sottoposta a grandi e diffuse sofferenze; 
      ma anche dotata di possibilità che debbono essere messe in campo da 
      un’azione istituzionale che scelga di lavorare, appunto, per una società 
      giusta. Le condizioni generali 
      del Mezzogiorno e del ruolo del pubblico, le abbiamo affrontate nel 
      documento generale dove indichiamo una diversa modalità 
      dell’organizzazione stessa del lavoro, intesa per fini e progetti. 
      L’aspetto che però reputiamo decisivo è quello dei beni comuni per 
      ribadire che questi sono beni indivisibili e perciò debbono essere 
      garantiti dal lavoro pubblico e quindi non possono essere privatizzati e/o 
      ricondotti a logiche di rendita finanziaria Queste nostre ipotesi di 
      lavoro, trovano un'adeguata conferma nelle tesi congressuali  della Cgil 
      che, non solo avanza l’ipotesi di un “Progetto per il Paese” ma ribadisce 
      la centralità del Mezzogiorno, come un insieme di obiettivi concreti da 
      costruire e da raggiungere per determinare una ripresa compiuta 
      dell’intero paese. Un Mezzogiorno, appunto, 
      non vissuto come problema ma come fonte di sviluppo per l’intero Paese. La Funzione Pubblica non 
      solo condivide questa scelta ma la sostiene attraverso i propri 
      emendamenti: sulla rappresentanza, la rappresentatività, la democrazia 
      sindacale, la contrattazione, e qui va ricordato che non solo dobbiamo 
      chiudere il secondo biennio ma dobbiamo avanzare una proposta per il nuovo 
      contratto. Nessuno può immaginare 
      di poter ulteriormente rinviare l’attuazione degli accordi sul secondo 
      biennio , provocando nuovi danni alle lavoratrici e ai lavoratori. Infine, poniamo la 
      nostra attenzione,nella fase congressuale, sulla difesa dei Beni Comuni, 
      che valutiamo ”costituiscono fattori decisivi per il benessere, i 
      diritti e la qualità della vita delle persone e delle comunità, nonché 
      dello stesso sviluppo economico” aprendo  una campagna di dibattito 
      tra i lavoratori e le lavoratrici, dentro l’Organizzazione a tutti i 
      livelli e con l’ambizione di estenderla a tutto il Paese, per affermare, 
      come è solito ribadire Carlo, il nostro ruolo che è quello di lavoratori 
      di una “fabbrica che produce diritti”. 
 
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