Documenti Sindacali

ALCUNE NOTE SUGLI STATUTI REGIONALI

1. PREMESSA
1.1 Riteniamo sia di qualche utilità produrre alcune prime e parziali riflessioni sull’attuale stagione di definizione degli Statuti delle Regioni nel senso che, dopo una fase abbastanza lunga di “incubazione”, anche in vista della fine delle legislature regionali, si è prodotta una certa accelerazione nell’approvazione e nella discussione degli Statuti stessi. Ad oggi, infatti, (fine settembre 2004), ragionando ovviamente per le Regioni a statuto ordinario, siamo in presenza di 6 Regioni che hanno approvato in seconda lettura, e quindi in via definitiva, il loro Statuto (Puglia, Calabria, Toscana, Umbria, Lazio, Emilia-Romagna), mentre altre 4 l’hanno approvato in prima lettura (Abruzzo, Marche, Liguria, Piemonte). Le restanti 5 (Basilicata, Campania, Molise, Lombardia, Veneto) si trovano in una fase di discussione più arretrata. Lo “stato dell’arte” quindi consente alcune prime valutazioni d’insieme sui risultati a cui si è approdati, come, peraltro, anche alla luce di quelle valutazioni, ci consente ancora spazi di iniziativa laddove la discussione non è finita o, comunque, continuerà.
1.2 In queste note, ci siamo limitati a prendere in esame gli Statuti delle 10 Regioni dove essi sono stati approvati in seconda o, almeno, in prima lettura. Come, peraltro, volutamente, l’analisi si concentra esclusivamente su 3 “blocchi” di questioni che riteniamo prioritarie per il nostro posizionamento e la nostra iniziativa e, cioè, una ricognizione sulla prima parte degli Statuti, quella che si riferisce ai principi e alle finalità generali, un approfondimento sui temi dell’organizzazione amministrativa e del ruolo del lavoro e, infine, sulle forme e gli istituti della partecipazione. Siamo consapevoli della parzialità di queste scelte, ma un lavoro più esteso e dettagliato (per esempio, includendo anche una riflessione sulle forme di governo e sull’ “architettura” istituzionale) sarebbe stato, in questa fase, al di fuori della nostra portata e, probabilmente, anche di natura sin troppo specialistica. In ogni caso ci sembra che i campi di indagine definiti siano quelli che più incrociano e riguardano la nostra iniziativa e la nostra funzione e, soprattutto, - visto che parliamo di diritti e principi fondamentali, di ruolo del lavoro e organizzazione delle “pubbliche funzioni”, e di partecipazione – hanno che fare con questioni su cui la Cgil e la Fp hanno caratterizzato addirittura punti di identità di questa nostra fase di lavoro ed iniziativa.

2 PRINCIPI E DIRITTI FONDAMENTALI
Questa parte degli Statuti regionali, che si ritrova nei primi articoli degli stessi, è generalmente e sostanzialmente ispirata in continuità con quanto previsto in materia dal dettato costituzionale.
Praticamente tutti gli Statuti si richiamano ai principi e ai diritti fissati dalla Carta Costituzionale, dai valori di pace, libertà, uguaglianza e democrazia al diritto al lavoro, alla non discriminazione, alla salute, all’assistenza e all’istruzione. Va però rilevato che emergono differenze significative nelle formulazioni e nell’enfasi posti su alcuni temi, che hanno marcato vistosamente la discussione politica di questi ultimi anni e su cui la diversità di impostazione tra centro-destra e centro-sinistra si è manifestata in termini sostanziali, di valori e di idea di modello sociale.
Volendo schematizzare, almeno su 4 filoni si intravedono e si esplicitano approcci ben diversi e che, non casualmente, costituiscono altrettanti punti su cui le novità e le trasformazioni intervenute in questi anni hanno sottoposto a torsione gli equilibri sanciti dal testo costituzionale.
Il primo è quello della pace e della guerra. Se è vero, su questo piano, che tutti i testi dello Statuto si richiamano alla Costituzione e ribadiscono di operare per l’affermazione del valore e della cultura della pace, però solo gli Statuti delle Marche e dell’Emilia-Romagna riprendono integralmente il testo dell’art. 11 Costituzione dove si afferma “il ripudio della guerra come strumento di offesa alle libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie istituzionali”.
Ovviamente, in questi tempi, questa riaffermazione testuale non può essere considerata un fatto banale o scontato.
Un secondo gruppo di questioni riguarda in tema della famiglia e delle altre forme di convivenza. E’ presente a tutti la discussione sviluppatasi in questi anni e contrassegnata da una vera e propria offensiva da parte del centro-destra per riaffermare un’impostazione familista nelle relazioni sociali e nell’idea di welfare. Da questo punto di vista, si spiega come rispetto a chi, come la regione Toscana e Umbria, ha voluto fare passi in avanti significativi in questa direzione, affermando il “riconoscimento delle altre forme di convivenza” nei propri testi statutari, il governo sia intervenuto con l’impugnazione di queste parti davanti alla Corte Costituzionale.
Un ragionamento analogo vale rispetto al tema dei diritti degli immigrati.
A fronte di Regioni come la Toscana e l’Emilia – Romagna che nei loro Statuti scrivono rispettivamente che “la regione promuove, nel rispetto dei principi costituzionali, l’estensione del diritto di voto agli “immigrati” e “il godimento dei diritti sociali degli immigrati, degli stranieri profughi rifugiati ed apolidi, assicurando, nell’ambito delle facoltà che le sono costituzionalmente riconosciute, il diritto di voto degli immigrati residenti”, la maggioranza degli Statuti tratta il tema in modo generico e “tradizionale” se non addirittura, recependo suggestioni culturali regressive come nel caso della regione Lazio, che sottolinea che essa “favorisce l’integrazione degli stranieri, regolarmente soggiornanti” (Sic!).
Infine, l’ultimo punto, di un qualche rilievo, su cui emergono punti di vista significativamente difformi è quello relativo al ruolo del mercato e dell’iniziativa privata. Anche qua troviamo tracce significative della discussione politica di questi ultimi anni. Non è difficile riscontrare le differenze, ad esempio, tra chi, come la Regione Lazio, scrive nel proprio Statuto, che “ riconosce il mercato e la concorrenza e prevede l’intervento pubblico in tutti i casi e le situazioni in cui l’iniziativa privata non sia in grado di fornire adeguate prestazioni di interesse generale “e chi, come la regione Emilia-Romagna, “promuove politiche e regole che assicurino diritti, trasparenza e libera concorrenza nell’economia di mercato”.
E’ evidente che queste affermazioni, che si collocano “agli estremi” di una scala ipotetica in cui il tema del ruolo dell’iniziativa privata viene affrontato nei vari Statuti, risentono l’una, di un’idea di centralità del mercato e dell’iniziativa privata, mentre l’altra, al contrario, evidenzia il fatto che il mercato necessita di regole e politiche non solo per l’affermazione dei diritti ma anche per il proprio funzionamento.

3. ORGANIZZAZIONE AMMINISTRATIVA e RUOLO DEL LAVORO
In questa parte degli Statuti, emergono almeno tre questioni meritevoli di segnalazione e di valutazione. La prima è quella relativa al ruolo della dirigenza e, più in generale, del rapporto tra ruolo di indirizzo politico e attività di gestione e di attuazione. Se tutti gli Statuti, anche se con formulazioni a volte assai differenti, riconfermano in via di principio la separazione dei ruoli tra politica e dirigenza, nel momento in cui si passa ad esaminare come ciò si estrinseca, emergono punti di scarsa chiarezza se non , addirittura, di vera e propria subordinazione della dirigenza alla politica, riproponendo veri e propri salti nel passato.
Esclatante, a questo riguardo, è quanto previsto dalla Regione Lazio dove, di fatto, viene proposto uno schema pressoché integrale di spoil-system. Infatti “alle posizioni di particolare rilievo e responsabilità” (peraltro, non meglio specificate), vengono preposti dirigenti nominati dalla Giunta e dall’Ufficio di presidenza, conferiti con incarico a tempo determinato che infatti, “cessano di diritto il novantesimo giorno successivo all’insediamento dei nuovi organi di riferimento, salvo conferma da parte degli organi stessi”. Solo la Regione Emilia-Romagna, a contrario, disciplina in modo preciso, in via statutaria, il conferimento di incarichi a tempo determinato per lo svolgimento di compiti speciali e di consulenza che sono attinenti al Gabinetto e alle Segreterie particolari degli organi della regione e alle articolazioni, organi e strutture dell’Assemblea regionale. Che peraltro, coerentemente, ribadisce che “ alle strutture organizzative regionali si accede mediante pubblico concorso, salvo i casi previsti dalla legge”.
Un secondo punto è quello relativo al ruolo della contrattazione collettiva nella determinazione del rapporto di lavoro. Solo in 4 Statuti (Umbria, Emilia- Romagna, Abruzzo e Marche) compare il termine contrattazione collettiva, nel senso che negli altri, la maggioranza di quelli esaminati, o il riferimento al lavoro (ad eccezione di quello dirigenziale) è assolutamente stringato o, comunque, in ogni caso, non si fa riferimento al ruolo della contrattazione collettiva. Non si può non notare, al riguardo, non solo una sottovalutazione forte e preoccupante del valore della contrattazione e anche della rappresentanza autonoma del soggetto lavoro (evidentemente, non percepiti come tali dalla maggioranza degli amministratori), ma anche il fatto che, a differenza di quanto evidenziato a proposito delle finalità e dei principi statutari, su questo terreno, diviene meno netta la distinzione tra centro-destra e centro-sinistra.
Infine, a conferma di questo ragionamento, vale la pena osservare – ed è la terza questione che ci interessa evidenziare – che 3 Regioni (Piemonte, Liguria e Marche) approdano ad una scelta, in materia di lavoro, che non possiamo che giudicare in modo seriamente negativo.
Ci riferiamo al fatto che queste 3 regioni inquadrano il personale della regione (con formulazioni più o meno marcate) in 2 distinti ruoli tra dipendenti della struttura del Consiglio regionale e di quella della Giunta Regionale. Emerge qui una concezione pericolosa che prefigura non solo separazione e differenza di trattamento e di opportunità tra gli stessi dipendenti dell’ente Regione, ma probabilmente persino un’idea – se abbinata al depotenziamento del ruolo della contrattazione- di gestione “proprietaria” (magari in termini clientelari – corporativi) dei lavoratori.

4. FORME E ISTITUTI DELLA PARTECIPAZIONE
Su questo punto va subito rilevato che tutti gli Statuti intervengono in modo ampio e, sotto diversi aspetti, anche in termini innovativi.
Ciò, da una parte, è da considerarsi “ovvio”, nel senso che queste tematiche sono connaturate alle definizioni statutarie, ma, dall’altra, segnalano che non è possibile sottrarsi – ci torneremo anche dopo – ad una crescita della domanda di partecipazione che si è verificata negli ultimi anni in tutta la società. Nel presentare un succinto resoconto di come la materia viene affrontata, ci sembra utile per comodità, suddividerla per capitoli fondamentali:

a) La potestà dell’iniziativa legislativa.
Tutti gli Statuti esaminati assegnano tale potere non solo alla Giunta e ai consiglieri regionali, ma anche ad un certo numero di Consigli provinciali o comunali che raggiungono complessivamente determinate soglie di popolazione. Inoltre, l’iniziativa legislativa è prevista, in tutti gli Statuti, che possa essere di iniziativa popolare, fissando numeri di elettori relativamente bassi per attivarla (dai 3.000 per l’Umbria e 15.000 per la Puglia ai 5.000 per la Toscana e 10.000 per il Lazio). Infine 6 regioni prevedono questa possibilità anche per il Consiglio delle Autonomie Locali ( vedi più avanti). Addirittura le Marche e, con alcune limitazioni, la Liguria la estendono anche ai Consigli regionali dell’Economia e del Lavoro;
b) le procedure referendarie. Ovunque viene normato il referendum abrogativo, con meccanismi simili. Esso non viene ritenuto ammissibile, sulla falsariga dell’istituto nazionale, sulle leggi di bilancio e tributarie, sullo Statuto, sui regolamenti interni degli Organi regionali, nonché sulle norme di accordi internazionali e delle intese con altre Regioni (poi, Calabria, Umbria e Liguria estendono tale impossibilità anche alle norme di tutela ambientale) : come pure è previsto che esso produca l’effetto abrogativo solo nel caso in cui si pronunci la maggioranza del corpo elettorale e se ottiene la maggioranza dei voti validamente espressi. Il referendum abrogativo può essere promosso da un determinato numero di elettori, con margini non troppo diversi da Regione a Regione (si va dai 10.000 dell’Umbria e 60.000 per la Puglia ai 50.000 del Lazio e ai 40.000 per Toscana ed Emilia-Romagna), e anche da un certo numero di Consigli provinciali o comunali che rappresentano numeri significativi di elettori. Viene poi istituito dappertutto il referendum consultivo che, però, è attivabile solo dal Consiglio Regionale e reso peraltro obbligatorio nei casi di fusioni o di istituzione di nuovi Comuni e per i mutamenti delle circoscrizioni e delle denominazioni comunali. Solo la Regione Toscana, l’Emilia-Romagna e la Calabria (rispettivamente con 30.000 elettori, 80.000 elettori e il 10% del corpo elettorale) ne rendono possibile l’attivazione direttamente dal corpo elettorale, mentre la Regione Lazio (unico caso), istituisce il referendum propositivo a fronte della richiesta di 50.000 elettori che, in questo senso, di fatto lo equipara al referendum consultivo di Toscana, Emilia-Romagna e Calabria;
c) gli organi di consultazione. In ogni regione vengono costituiti i CAL (Consigli delle Autonomie Locali). Questo peraltro discende dalla legge costituzionale 18.10.2001 n. 3 “Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione” che prevede espressamente che ogni Regione costituisca e disciplini statutariamente il Consiglio delle Autonomie Locali, quale organo di consultazione tra le Regioni e gli Enti Locali. Nella sostanza, tutte le Regioni rinviano ad una legge apposita le modalità di formazione e composizione del CAL, ma 6 (Lazio, Calabria, Puglia, Emilia-Romagna, Liguria e Toscana) lo “elevano” ad organo di rappresentanza e 6 lo dotano di potere di iniziativa legislativa ( Lazio, Calabria, Umbria, Marche, Liguria, e Toscana). I CAL partecipano ai processi decisionali delle Regioni riguardanti, in particolare il sistema delle Autonomie Locali, con la formulazione di esami pareri e proposte. Inoltre, 6 Regioni (Lazio, Calabria, Emilia-Romagna,Piemonte, Marche e Liguria) istituiscono il Consiglio Regionale dell’economia e del lavoro (CREL), con compiti di analisi, studio e confronto-consultazione sulle politiche di programmazione economica e sociale. Le altre 4 Regioni esaminate (Puglia, Umbria, Abruzzo e Toscana), pur con denominazioni diverse, si dotano di organismi analoghi;
d) altri istituti e forme di partecipazione. Tutte le Regioni istituiscono la figura del difensore civico, come pure sono previste varie commissioni tematiche. In particolare, è da segnalare come tutte le Regioni costituiscono la Commissione Pari opportunità. Infine, merita una sottolineatura quanto previsto dalla Regione Emilia- Romagna che, unica, in modo innovativo, si inoltra sul terreno della promozione della partecipazione dei soggetti organizzati. Più in specifico si introduce l’istituto dell’istruttoria pubblica, con la quale, l’assemblea regionale, anche su richiesta di non meno di 5.000 persone, avvia una procedura di consultazione cui possono partecipare associazioni, comitati e gruppi di persone portatori di interessi non individuali. Analogamente viene prevista l’istituzione con criteri e modalità definiti di un Albo delle associazioni che chiedono di partecipare alla definizione degli indirizzi politico programmatici regionali, a partire dal quale si costruisce un protocollo di consultazione con le associazioni stesse, che diventa parte integrante del regolamento dell’Assemblea legislativa.

5. PRIME PARZIALI CONCLUSIONI
Alla luce della breve disamina svolta, è possibile trarre alcune prime parziali conclusioni del ragionamento, che possono offrirci una chiave di lettura dei processi in corso e costituire altrettanti punti di riferimento per la nostra iniziativa. Provando a costruire una valutazione di sintesi, potremmo esprimerla nei seguenti termini:

1) nell’insieme gli Statuti regionali si collocano nell’alveo di quanto sancito dal dettato costituzionale, nel senso che non siamo in presenza di “sfondamenti” o lacerazioni di quanto lì fissato come riferimenti di fondo. Ciò non toglie che, affrontando i temi relativi ai principi e alle finalità, ci siano differenze anche sostanziali tra i vari Statuti che ripercorrono punti di distinzione significativi tra centro-destra e centro-sinistra;

2) il tema del lavoro e l’organizzazione delle “pubbliche funzioni “dell’Ente Regione è generalmente sottovalutato, se non addirittura affrontato in termini regressivi.
Peraltro, in questo quadro di giudizio generale, non si può non notare che si attenuano su questo punto anche le differenze tra centro-destra e centro-sinistra;

3) gli Statuti compiono passi in avanti significativi sul piano della definizione delle forme e degli Statuti di partecipazione, segno che tale istanza è fortemente cresciuta, in primo luogo, nel tessuto sociale e ciò ha indubbi riflessi anche nella formazione della trama istituzionale.

Insomma, anche guardando lo specifico di quanto definito negli Statuti regionali, ci si presenta uno spaccato di realtà, nella quale permangono forti le differenze di idealità e valori tra gli schieramenti politici, si conferma vitale una domanda e un tessuto partecipativo, che proviene dalla società, tende a essere meno visibile e valorizzato il ruolo del lavoro.
Tutto ciò, tra luci ed ombre, peraltro non può spingere nessuno (tanto meno noi, per il ruolo che svolgiamo) a letture ed interpretazioni ottimistiche, anche perché l’”offensiva”, anche sul piano degli assetti istituzionali, viene giocata prevalentemente a partire dalla “controriforma” in materia di forma di governo e devoluzione, in discussione in questi giorni alla Camera dei deputati. Ma di ciò, come è noto, ci stiamo occupando e dovremo, per forza di cose, tornare ad occuparci nel prossimo futuro.

29.09.04

 

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