Prof.
Carlo Smuraglia
Prime valutazioni in
relazione allo schema di decreto legislativo per un Testo Unico sulla
sicurezza e igiene del lavoro, approvato dal Consiglio dei Ministri il 18
novembre 2004 ai sensi dell’articolo 3 della legge 29.7.2003 n. 229
Da anni si sottolinea da
varie parti l’esigenza di un Testo Unico sulla sicurezza del lavoro, che
raccolga le norme vigenti e le coordini, nel contempo apportando alcune
innovazioni necessarie per rafforzare e rendere più efficace il sistema di
prevenzione.
Il primo tentativo risale al 1978 con la legge di riforma sanitaria; poi
ci furono le proposte della Commissione Lama e dopo ancora, nel corso
della tredicesima legislatura, la presentazione, la discussione e
l’approvazione nella Commissione Lavoro del Senato di un Testo molto
ampio, peraltro mai approdato all’Aula.
Adesso l’iniziativa è stata assunta dal Governo con la predisposizione di
uno schema di decreto legislativo in virtù della delega conferita dal
Parlamento con l’art. 3 della legge 229/2003.
Il primo quesito che si pone è se questa iniziativa, in sé commendevole,
perché corrispondente ad una esigenza più volte - come si è detto –
manifestata, sia corrispondente alle attese e alle effettive necessità.
Va ricordato, in premessa, che l’art. 24 della legge 833/1978, che
peraltro non ebbe alcun seguito, fissava precisi criteri per la delega,
spesso notevolmente avanzati, fra i quali particolarmente significativo
quello contenuto al punto 8, che faceva esplicito riferimento all’obbligo
del datore di lavoro di programmare il processo produttivo in modo da
farlo risultare rispondente alle esigenze della sicurezza del lavoro.
Compariva così, per la prima volta, un riferimento alla organizzazione del
lavoro come fattore primario di rischio e di responsabilità. Da notare
anche che alle norme delegate si affidava il compito di determinare le
sanzioni, da graduare in relazione alla gravità delle violazioni e
comportanti comunque, nei casi più gravi, l’arresto fino a sei mesi e
l’ammenda fino a 10 milioni.
Anche le proposte allegate alla relazione Lama non ebbero alcun seguito.
Più ampia e complessa fu, invece, la vicenda delle iniziative parlamentari
della tredicesima legislatura, che furono accompagnate da numerose
audizioni e da assidui contatti con operatori e studiosi, recepirono molte
modifiche rispetto al testo originario, ottennero l’approvazione della
Commissione lavoro del Senato e poi si fermarono lì.
Peraltro, l’esigenza di provvedere a un coordinamento delle norme vigenti
in materia di sicurezza ed igiene del lavoro, che desse certezza e
chiarezza delle regole, non riducendosi peraltro al livello di un’opera di
mera compilazione, diveniva sempre più sentita anche a seguito delle
numerose direttive comunitarie, destinate – prima o poi – ad essere
recepite anche dal nostro Paese.
Comunque, anche al fine di introdurre significative innovazioni che
potenziassero il sistema della prevenzione, appariva necessario tener
conto delle esperienze concrete e misurarsi anche con la scarsa
effettività di un sistema, peraltro ormai molto completo.
Un criterio fondamentale poteva e doveva essere fornito dal rapporto
conclusivo (novembre 2003) del monitoraggio e controllo dell’applicazione
del decreto legislativo 626/94, effettuato dal coordinamento delle Regioni
e Province autonome.
In estrema sintesi, quel rapporto –che è giusto considerare di grande
rilevanza– concludeva nel senso che "il quadro descritto non mette in
discussione la validità della norma e del percorso metodologico e
culturale che le è sotteso, ma indica chiaramente che è necessario e
urgente agire per favorire il raggiungimento di una sua coerente ed
efficace applicazione in tutte le aziende italiane". Le carenze
applicative rivelate dal rapporto coincidevano in gran parte con quanto si
andava rilevando da tempo: si notava una "discreta attuazione delle
regole, ma spesso più burocratica e formale che sostanziale, si
sottolineava l’incompleta attuazione dei princìpi partecipativi, si
rilevava una maggiore criticità nelle piccole aziende, si indicavano
infine i maggiori punti deboli per l’attuazione del sistema, nella
formazione, nella programmazione degli interventi, nelle procedure di
sicurezza, nella difficoltà a fare entrare i programmi e le misure di
sicurezza in un vero sistema complessivo di gestione delle aziende.
Infine, si sottolineava la necessità di una seria programmazione degli
interventi di vigilanza (soprattutto della cosiddetta sorveglianza
prevenzionale), evidenziando che con ciò "non si intende capovolgere i
tradizionali e corretti criteri di programmazione delle attività dei
servizi di prevenzione di vigilanza negli ambienti di lavoro, delle
aziende sanitarie, fondate su diffusione e gravità del rischio e sui dati
statistici relativi ad infortuni o malattie professionali, bensì suggerire
un ulteriore criterio di programmazione di cui tener conto".
Merita un espresso richiamo un’osservazione conclusiva del rapporto, là
dove si afferma che "non va dimenticato come lo stesso legame tra il
sistema sicurezza e il sistema qualità sia una garanzia per la salute dei
lavoratori e anche per la produttività aziendale".
Insomma, con quel rapporto si era in presenza di un approccio finalmente
complessivo, non limitato a una visione angusta e settoriale, ma idoneo ad
accogliere tutti gli aspetti del fenomeno, attorno ai quali impostare una
strategia globale e condivisa di interventi.
E’ significativo il fatto che il rapporto si concludeva con
un’osservazione molto puntuale: "in questa ottica, sarebbe negativo per il
sistema procedere con semplificazioni legislative per affrontare un
problema sostanzialmente complesso".
Orbene, se questi erano i parametri e le indicazioni disponibili, la
lettura dello schema di decreto legislativo non consente di esprimere
valutazioni positive e di particolare apprezzamento; piuttosto sembra
doversi parlare di una grande occasione mancata (e non solo da ora, perché
all’origine c’è il provvedimento di delega, già allora criticato da molti
studiosi e operatori).
E’ vero che vi sono alcuni aspetti positivi, fra i quali vanno ricordati:
il fatto stesso di tentare un coordinamento e riduzione ad unum di norme
complesse e non sempre coerenti fra loro; la previsione dell’estensione
delle tutele a tutti i lavoratori subordinati e autonomi, quale che sia la
tipologia dei contratti; il tentativo di introdurre qualche
semplificazione, soprattutto a vantaggio delle imprese minori. E’
altrettanto vero, però, che il provvedimento non sembra tener conto né
delle indicazioni dell’articolo 24 della legge 833/78, né delle esperienze
e conoscenze acquisite nel corso della tredicesima legislatura né –infine,
e questo è ancora più grave– del rapporto di monitoraggio delle Regioni.
In sostanza, non solo non si colgono, nello schema, significative
innovazioni in tutti i settori indicati come più "critici", ma non si
individuano affatto rimedi concreti e validi contro il livello troppo
basso di attuazione dei precetti normativi (vuoi sotto forma di vera e
propria inottemperanza, vuoi sotto il profilo di adempimenti solo formali
e burocratici).
In più, si colgono agevolmente sintomi assai gravi di arretramento
rispetto al sistema vigente, che proprio in alcuni suoi punti nodali
rischia di essere notevolmente indebolito; con ulteriori pericoli per
quanto riguarda la sicurezza del lavoro, notoriamente in fase tuttora
critica, e con ulteriori rischi di scontro con l’Unione europea, qualora
venga riscontrato che l’arretramento riguarda anche le linee assunte
dall’Unione europea nelle sue direttive.
In particolare:
a. l’articolo 1 appare riduttivo rispetto ai poteri e alle competenze
legislative e relativi limiti. Nessun dubbio sull’obbligo di rispetto
delle normative comunitarie; ma è assai improbabile che il limite della
legislazione delle Regioni e Province autonome possa ridursi al "rispetto
dei principi fondamentali ricavabili dal presente decreto legislativo".
Manca del tutto il riferimento alla Costituzione ed ai principi
fondamentali di cui all’art. 117, nuovo testo, comma 3 (princìpi che non
possono essere ridotti solo a quelli ricavabili dal decreto legislativo).
Tutto questo va rilevato non già per sminuire i poteri delle Regioni, che
sono e restano rilevanti, ma per evitare una complessiva discrasia, nel
sistema di sicurezza, e fenomeni eventuali di dumping economico – sociale
a livello territoriale.
b. l’articolo 2087 c.c. è ritenuto norma di fondamentale importanza, da
tutta la dottrina e da tutta la giurisprudenza. Questa norma, che esiste
nel codice civile dal 1942 e che obbliga i datori di lavoro ad "adottare
nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del
lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità
fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro", non può subire
gravi limitazioni con semplice tratto di penna, come pretenderebbe di fare
l’art. 1 comma 4 dello schema. Non sarebbe più necessario, per il datore
di lavoro, individuare lui stesso le misure necessarie, al di là delle
previsioni normative, perché basterebbe rispettare le prescrizioni del
decreto legislativo e le "norme" di buona tecnica e di buona prassi. Non
c’è dubbio che siamo di fronte ad un notevolissimo passo indietro rispetto
a un principio che in tutti questi anni è stato recepito come fondamentale
e che anzi in alcune sentenze della Corte di Cassazione ed anche a seguito
dell’avvento delle direttive comunitarie, è stato ritenuto come
ulteriormente rivitalizzato e rinforzato.
c. Il principio esposto nell’articolo 6, comma 1 lettera b), secondo il
quale l’eliminazione o la riduzione dei rischi dev’essere realizzata
mediante "misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente
attuabili….. in quanto generalmente utilizzate" è fortemente riduttivo
rispetto al concetto di "massima sicurezza tecnologicamente fattibile",
acquisito da anni dalla più diffusa giurisprudenza, proprio al fine di
evitare un pericoloso riferimento non solo a valutazioni di convenienza
economica, ma anche a pratiche generalizzate, che non è detto siano sempre
le migliori e le più accreditabili scientificamente e tecnicamente. La
sentenza della Corte Costituzionale 312/1996 è stata poi correttamente
interpretata anche attraverso importanti decisioni della Corte Suprema di
Cassazione, a fronte delle quali non è pensabile un arretramento e nemmeno
un ripensamento facilmente giustificabile.
d. La contrapposizione tra i veri e propri precetti normativi e le norme
di buona tecnica e le buone prassi, finisce per depotenziare il sistema
normativo, a vantaggio di indicazioni spesso evanescenti e non sempre
dotate di reale effettività. Non di questo c’era bisogno, lo si è già
detto; se mai, il sistema esigeva un ulteriore rafforzamento della
precettività delle norme.
e. Il sistema delle sanzioni, apparentemente lasciato inalterato (e
certamente visto ancora con criteri molto riduttivi rispetto alle
previsioni, addirittura, della legge 833/78), in realtà subisce un forte
depotenziamento proprio perché la sanzione si accompagna, di regola, solo
ai veri precetti normativi, ma non alle buone prassi e alle norme di buona
tecnica. In realtà, in questo modo si realizza una forma di
depenalizzazione sostanziale, della quale non vi era nessun bisogno, anche
perché a prevedere adeguati correttivi all’eventuale rigidità del sistema
aveva già provveduto lodevolmente il decreto 758/94.
f. E’ da considerare come un sostanziale regresso, almeno rispetto alle
attese ed alle necessità reali, anche tutto ciò che manca e che talora è
semplicemente enunciato. In particolare, mentre nell’articolo 1 comma 2,
si fa riferimento alla "responsabilità sociale delle imprese", in tutto il
testo non si trova una disposizione che dia concreta attuazione al
proposito manifestato nella norma. Per altro verso, non si coglie
l’occasione per individuare i contenuti effettivi di quella
"responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi
di personalità giuridica" di cui si parla da anni e in particolare a
partire dalla legge 29 settembre 2000 n.300, mai attuata nella parte
relativa proprio alla sicurezza del lavoro.
Questi sono, peraltro, soltanto alcuni degli aspetti più clamorosi delle
valutazioni non positive effettuate all’inizio, ai quali se ne potrebbero
aggiungere certamente altri. Al di là di questi aspetti di carattere
soprattutto di principio, vi sono numerose altre osservazioni da fare in
termini di sufficiente concretezza e cominciando a scendere in qualche
modo nel dettaglio, anche se i tempi consentono di farlo, per ora,
soltanto in modo limitato.
In particolare:
1. La tecnica utilizzata è quella di inserire nel Testo Unico i princìpi
generali, trasferendo tutti gli aspetti più specifici negli allegati. In
questo modo, però, il sistema non si rafforza e sotto certi aspetti si
complica; mentre c’è il rischio evidente della degradazione di molti
precetti imperativi al semplice livello di norme tecniche e di buone
prassi, spesso sprovviste di sanzioni effettive. Non è convincente,
d’altronde, l’argomento secondo il quale la collocazione di norme più
dettagliate e specifiche fra gli allegati consentirebbe un più rapido
aggiornamento delle norme; in realtà, per ottenere un risultato del genere
vi sono ben altri sistemi e metodi, sul piano giuridico, altrettanto e
probabilmente molto più validi e non suscettibili di creare riduzioni
complessive del livello di tutela.
2. Nella relazione si fa una distinzione netta tra un nucleo intangibile
di norme che riguardano gli obblighi fondamentali di natura organizzativa
e comportamentale e le norme di buona tecnica e le buone prassi. Altre
volte si distingue tra disposizioni incidenti direttamente sulle
condizioni di sicurezza ed altre la cui inosservanza non comporterebbe
conseguenze immediate e dirette sulle condizioni di sicurezza, e quindi
non sarebbero più obbligatorie. Queste distinzioni sono estremamente
labili, sia in relazione alla difficoltà di individuare criteri
differenziali sicuri, sia in rapporto alla chiarezza della normativa per
la sua quotidiana applicazione, sia infine agli effetti della
individuazione – in sede giurisdizionale – del nucleo fondamentale della
colpa, nel caso di infortuni sul lavoro e relative responsabilità.
3. L’esclusione di moltissimi lavoratori di varie tipologie dalla
determinazione del numero di lavoratori dal quale il decreto fa discendere
particolari obblighi (art. 4 co. 1) è certamente negativa, agli effetti di
un efficace sistema di prevenzione.
4. L’affidamento alla libera scelta del datore di lavoro dei criteri di
redazione del documento di valutazione dei rischi (art. 7 co. 1 lettera b)
n. 1) rappresenta un passo indietro rispetto alle definizioni oggettive ed
al richiamo alle linee guida formulate da enti pubblici, che hanno
costituito finora il principale punto di riferimento.
5. La riconosciuta facoltà di redigere il documento di valutazione dei
rischi in forma semplificata sulla base di indicazioni fornite dagli
organismi bilaterali (art. 7 co. 6) è incoerente col sistema e palesemente
pericolosa, oltreché negativa ai fini di una efficace e rapida vigilanza.
6. Manca una disciplina completa ed efficace dei consulenti della
sicurezza, ormai largamente diffusi in forma individuale o in forma
societaria, nonostante inconvenienti ed abusi più volte segnalati da varie
parti.
7. Lo svolgimento diretto da parte del datore di lavoro dei compiti di
prevenzione dev’essere consentito, ma con particolari cautele. Nello
schema di decreto, invece, (art. 17) si ampliano i limiti già previsti dal
626, non si prevede alcuna forma di aggiornamento e si esclude ogni tipo
di comunicazione agli organismi pubblici.
8. La riunione periodica viene omessa proprio nelle aziende in cui il
rischio è maggiore (art.18 co. 1).
9. Le attribuzioni dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza
vengono in qualche modo ridotte o comunque, per alcuni versi, sottoposte a
limitazioni ingiustificate (art. 26 co. 1 lettera a)). Non vengono
previste concrete garanzie contro eventuali ostacoli frapposti alla loro
attività, non risultando sufficiente – in base alle esperienze ormai
acquisite – il generico richiamo alle tutele previste per le
rappresentanze sindacali. Tant’è che nella precedente legislatura fu
discussa a lungo l’ipotesi di uno specifico intervento normativo, poi
decaduto per fine legislatura e mai ripreso in considerazione.
10. Il ritorno alla figura della disposizione (art. 32), divenuta inutile
specialmente dopo il decreto 758/94 e dopo alcune esperienze non
esaltanti, è certamente negativo, perché introduce meccanismi complicati e
sicuramente non certamente non validi ai fini dell’efficacia e della
prontezza degli interventi. Il sistema previsto di mera sanzionabilità in
forma indiretta dell’inosservanza della disposizione, è assai debole e
certamente soggetto ad enormi difficoltà attuative, essendo previsto,
(art. 32 co. 2) il ricorso gerarchico, con possibile efficacia sospensiva.
In realtà, si sarebbe dovuto operare – invece – nella direzione di un
rafforzamento del sistema previsto dal citato decreto 758/94, dimostratosi
– nel complesso – valido.
11. Non si capisce perché, dopo aver proclamato la rilevanza del ruolo
delle Regioni, non si consenta loro di effettuare monitoraggi se non
"congiuntamente" con altri organismi, pubblici e privati (articolo 34 co.
1); in realtà, se è certamente auspicabile un coordinamento, non si vede
perché ogni verifica debba essere fatta in forma congiunta tra numerosi
enti.
12. Il sistema delle sanzioni viene fortemente depotenziato, non solo per
quanto riguarda la minore responsabilizzazione dei datori di lavoro, ma
anche e soprattutto perché troppe sono le disposizioni che passano a
livello di buone prassi o di norme tecniche.
13. L’abrogazione di interi provvedimenti tuttora dotati, per molti
aspetti, di validità ed efficacia (art. 186, con particolare riferimento
ai decreti presidenziali 547/55 e 303/56) e la degradazione di alcune
parti di essi a livello di buona tecnica o buone prassi, significa
sostanzialmente disperdere un patrimonio normativo che per tanti anni è
riuscito a conservare un saliente valore.
14. L’aggiornamento continuo di tutti gli operatori addetti alla
sicurezza, pubblici e privati, è previsto in forma oltremodo generica e
vaga.
15. Il rafforzamento della rete delle strutture pubbliche, da tutti
auspicato, sia per le funzioni di prevenzione e consulenza che per quelle
di vigilanza e repressione, è sostanzialmente assente. Non si riesce a
trovare traccia, in alcuna parte del testo, delle osservazioni e delle
proposte formulate dalle Regioni nel rapporto conclusivo più volte
ricordato, in cui si proponeva un ripensamento della stessa "mission"
degli organi SMI della prevenzione, in funzione di un rafforzamento
sostanziale e del superamento delle note difficoltà che si frappongono a
un’attività davvero organica, programmata, efficace e coordinata,
soprattutto ai fini della prevenzione e della tempestività di ogni
intervento.
16. Per un provvedimento che dovrebbe unificare e coordinare tutto il
sistema sono troppe le esclusioni e le deroghe, anche per settori di
particolare rilievo o rischiosità.
17. Per quanto riguarda le sanzioni amministrative o meramente pecuniarie,
manca una disciplina moderna e aggiornata che ne consenta una reale
effettività, nonostante i buoni propositi manifestati nella relazione.
18. Si parla più volte, e talora con accenti particolarmente enfatici, del
nuovo ruolo che si intende assegnare agli enti bilaterali, anche in tema
di sicurezza del lavoro. Per la verità, un rafforzamento degli organismi
previsti dall’art. 20 del decreto 626 era stato chiesto da più parti. Ma
non sembra che quella adottata possa essere considerata la soluzione
giusta. La facoltà di compiere sopralluoghi (art. 27 co. 4) per verificare
l’applicazione delle norme si sovrappone palesemente e pericolosamente ai
compiti e alle funzioni degli organismi pubblici di vigilanza. Mentre il
potere di rilasciare una certificazione si sovrappone ai compiti di altri
organismi anche privati, non solo senza vantaggi reali, ma anzi col
rischio di produrre problemi e tensioni anche nell’ambito aziendale, per
la possibilità di conflitti e contrasti con l’attività dei RLS e delle
stesse rappresentanze sindacali. Tantomeno appare convincente
l’attribuzione agli enti bilaterali di un’altra funzione impropria qual è
quella di fornire indicazioni per la stesura del documento di valutazione
dei rischi nell’ipotesi di cui all’art. 6 co.7 dello schema. Sarebbero
certamente più utili di tutto quanto previsto, disposizioni dirette ad
incentivare sia i compiti tipici degli organismi di cui all’art. 20 del
decreto 626, sia la contrattazione collettiva di settore a livello
aziendale. Ciò si può ottenere agevolmente con strumenti indiretti e
rispettosi dell’autonomia delle organizzazioni sindacali (basti pensare
all’ipotesi, sperimentata in altri Paesi, di incentivazioni, premi e
riconoscimenti di qualità, in favore delle aziende nelle quali vigono
buone relazioni collettive).
19. Sono difficilmente comprensibili le ragioni che stanno alla base del
previsto "ridimensionamento" della Commissione permanente (art. 35), che
avrebbe solo bisogno di essere fatta funzionare a regime, senza le pause
particolarmente lunghe cui si è assistito negli ultimi anni.
20. Le disposizioni relative alle incentivazioni e alle attività
promozionali, soprattutto a favore delle piccole imprese (art. 37) sono di
una genericità assoluta, mentre è incomprensibile l’attribuzione di
particolari ed esclusivi poteri, in questo campo, al Ministero del lavoro
e delle politiche sociali.
21. La sorveglianza sanitaria diventa obbligatoria solo per i rischi
previsti dal decreto (art. 23 co. 1). Con ciò non viene presa in
considerazione, in alcun modo, la tematica dei cosiddetti "nuovi rischi"
collegati all’organizzazione del lavoro ed agli aspetti relazionali (non
solo ripetitività e monotonia, ma anche mobbing, molestie nei luoghi di
lavoro, ecc.), nonostante che la materia abbia formato oggetto, di
recente, di particolare attenzione da parte di tutti gli studiosi ed anche
dello stesso INAIL (v. circolare 71 del dicembre 2003).
22. Infine, se è giusta – come si è già rilevato – la estensione di tutte
le norme e misure di sicurezza a tutti i lavori e a tutte le tipologie di
rapporti, è evidente che l’estensione – di per sé – non è sufficiente,
viste le ovvie difficoltà che si prospettano per ciò che attiene al lavoro
autonomo e per tutti i lavori frammentati, "atipici", eseguiti in luoghi
diversi dalla sede principale di lavoro, in forme particolari, e così via,
per i quali l’informazione, la formazione e la stessa vigilanza sono
certamente assai poco agevoli. Un testo che volesse essere davvero
innovativo non dovrebbe esimersi dal fornire indicazioni e regole precise,
adeguate alle singole fattispecie. La genericità dei riferimenti previsti
può costituire soltanto un’agevole fonte di inadempimenti e di
inosservanze sia dei veri e propri precetti che delle stesse indicazioni
fornite dalla tecnica e dalla prassi, peraltro in questo campo ancora, e
per forza di cose, del tutto insufficienti.
Naturalmente, questi rilievi sono soltanto quelli formulabili nei tempi
ristretti di un primo esame di un testo apparso assai di recente, dopo
varie formulazioni e diversi ritocchi. Se ci sarà, come sembra, la proroga
del termine per l’emanazione del decreto legislativo fino al 30 giugno
2005, sarà certamente possibile approfondire l’analisi, effettuare
raffronti puntuali tra la materia inserita nello schema e quella finora
vigente, e così via; e sarà certamente possibile formulare proposte anche
più concrete di modifica delle parti di cui si è segnalata la criticità.
Lo spostamento del termine sarebbe certamente utile al fine di consentire
alle Regioni di esprimere in tempi ragionevoli il parere prescritto dalla
legge e allo stesso Parlamento di discutere a fondo un problema di così
rilevante importanza emanando pareri ragionati e utili alla individuazione
delle migliori soluzioni possibili, in un settore nel quale si assiste
ancora quotidianamente a fenomeni molto preoccupanti e certamente assai
dolorosi, come quelli degli infortuni sul lavoro (e particolarmente di
quelli più gravi) e come le malattie da lavoro, che si vanno diffondendo,
al di là di quelle tradizionali, anche in relazione al mutamento delle
condizioni di lavoro, delle tecnologie e delle trasformazioni dei processi
produttivi.
Milano, 14 dicembre 2004
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