RELAZIONE
di Carlo Podda

C’è un dato certo che mi spinge a sperare che questo nostro 8° Congresso Nazionale sia comunque migliore di quello che celebrammo poco più di quattro anni fa. Da tre giorni è infatti finalmente terminata una delle peggiori, probabilmente la più disastrosa legislatura della storia dell’Italia repubblicana.

Il meglio che infatti si può dire di questo Governo è che finalmente è finito, anche se profondi e, se non affrontati con la giusta decisione, duraturi rischiano di essere i danni procurati al nostro Paese ed alle persone che rappresentiamo.

Il precedente Congresso della categoria e della Cgil si svolse infatti all’indomani delle elezioni del 2001 e della vittoria schiacciante riportata in quella consultazione dal centro destra.

Si affermò pesantemente con quella vittoria l’ipotesi di costruzione di un blocco sociale in grado di fornire un consenso duraturo al dispiegarsi di una strategia di costruzione di un modello di società fondata sul liberismo.

Abbiamo diffusamente analizzato questa fase, nei suoi fondamenti teorici e nella sua costruzione materiale, nel corso della nostra ultima Conferenza di Programma.

A dire il vero non ci siamo limitati a ricostruire, dopo che sono accaduti, le cause e gli effetti di questa situazione. Mi permetto infatti di ricordare che il tutto era stato da noi largamente previsto già nella redazione del documento che la categoria offrì al Congresso Confederale come contributo al dibattito nel 2001.

Già allora, nell’analizzare le cause della vittoria della Casa delle Libertà, affermavamo che: “...... una parte significativa del lavoro dipendente, anche quello del lavoro pubblico, aveva votato per la destra che aveva saputo  intercettare da un lato, i bisogni e le ansie riguardo il proprio futuro, che i processi di ristrutturazione conseguenti alla globalizzazione hanno via via generato, e, dall’altro, una sorta di rabbiosa ed indistinta volontà, dei ceti più deboli e marginali, di inclusione, non attraverso una maggiore giustizia sociale, ma per via dei mirabolanti percorsi individuali.

Il segnale che la destra ha lanciato a questa parte della società, è che l’inclusione sarebbe possibile, se si superasse la barriera di protezionismo costituita dalla legislazione sul lavoro e sul welfare, dalla quale la società è ingessata.

Secondo questa impostazione non è necessaria più giustizia sociale, non si tratta di ampliare la rete di protezione, includendo anche quelli finora esclusi, si tratta invece di abbattere questa rete, che impedisce alla libertà di ciascun individuo di acquisire un livello di benessere tale da garantirgli autonomamente sicurezza  per il presente ed il futuro. In sintesi, la convinzione che i diritti collettivi siano un ostacolo alla libertà, si è fatta strada e costituisce uno degli assi di fondo dello spostamento a destra della società italiana”.

Come si sa si è trattato di un fenomeno che ha interessato ed interessa tuttora il nostro Paese. Una gran parte del mondo e dell’ Europa ha infatti subito, ed è in buona parte arretrato, di fronte all’assalto che ai sistemi di sicurezza sociale, ai diritti di cittadinanza e del lavoro è stato portato dalla globalizzazione finanziaria e mercantile. Si è molto discusso in questi anni di come la globalizzazione avesse in sé rischi, ma anche potenzialità e di come si dovesse cercare di captare questa specie di energia, di cavalcare questa onda impetuosa per acquisirne i vantaggi che, come dire, ineluttabilmente ne sarebbero derivati.

Io invece penso, per fortuna in compagnia di tante persone, donne uomini ragazze, ragazzi, che in questi anni hanno dato vita e sostenuto il movimento no global, che questa globalizzazione senza regole e senza diritti non ha prodotto i danni, che come si sa ha determinato, come effetti collaterali, come risultato di una fase intermedia superata la quale, l’accumulazione delle ricchezze che ne è derivata, verrà ripartita, avrà una sua ricaduta anche sui Paesi, e all’interno di essi sugli strati sociali, che ne sono stati travolti. Penso al contrario che questa globalizzazione ha bisogno, per poter raggiungere gli obiettivi che si propongono i soggetti che la determinano, di mantenere ed anzi aumentare la disuguaglianza tra i paesi ricchi e quelli poveri ed all’interno dei singoli stati tra gli strati più ricchi e quelli più poveri della popolazione.

Non c’è statistica, analisi nel mondo, fosse anche quella promossa dagli istituti meno ideologicamente orientati, che non convenga su un punto. Nel nostro pianeta l’attuale modello di sviluppo non produce, e non ha finora prodotto, progressive tendenze all’eguaglianza, ma anzi un formidabile aumento delle disuguaglianze. Il rapporto tra il quinto più ricco e quello più povero della popolazione mondiale, è passato da 30 ad 1 nel 1960, a 74 ad 1 nel 1995, secondo quanto riportato dal Rapporto sullo sviluppo dell’Uomo redatto dall’ONU e pubblicato a New York nel 1999.

Mentre la FAO, nel suo ultimo rapporto ci informa che 800 milioni di persone non hanno cibo a sufficienza, 70 persone al minuto muoiono di fame ed un bambino si spegne per denutrizione ogni cinque secondi. Il rapporto tra la popolazione totale e quella denutrita varia dal 20% dell’America centrale fino al 55%  dell’Africa centrale. Gi Stati Uniti d’America spendono oltre 87 miliardi di dollari per la guerra in IRAK, mentre le Nazioni Unite stimavano, nel loro programma di sviluppo del 1998, che ne sarebbero bastati meno della metà per fornire acqua potabile, un’alimentazione adeguata, servizi igenico-sanitari e istruzione di base ad ogni abitante della Terra. I Paesi ricchi, quelli che danno vita al G8, al   WTO, alla Banca mondiale, che governano il pianeta in queste sedi non democratiche e sottratte ad ogni controllo dei popoli del mondo, spendono lo 0,25% del proprio PIL in aiuti, ma qualcuno, come l’Italia, riesce persino a fare peggio, spendendo appena lo 0,17%.

Già il PIL: Prodotto Interno Lordo, il nostro unico dio, quello che dovrebbe indicare da solo il benessere di un Paese, del suo popolo, anzi, dell’intero pianeta.

A questo dio si sacrifica qualsiasi scelta e principio. Eppure è ormai evidente che, quando va bene, questo indicatore segnala la dinamica di crescita dei beni prodotti, per deduzione la ricchezza complessiva della realtà economica  presa in considerazione.

Non è certo in grado di cogliere la distribuzione di questa ricchezza, né tantomeno la crescita del benessere sociale o individuale. Basti pensare come, secondo l’OIL, nel 2005 a fronte di una crescita globale del PIL pari al 4,3%, solo 14 milioni, sugli altri 500 milioni di lavoratori poveri nel mondo, hanno superato la soglia di un dollaro al giorno. Dal mio punto di vista il rammarico su come questi andamenti non siano stati nel loro significato, nelle loro cause, compresi, anche da parte nostra, in qualche caso anche a sinistra, è superato  solo da quello che provo quando constato come si continui a voler far credere  che questo mondo, attraversato da queste infernali disuguaglianze, sia il migliore dei mondi possibili.

Emblematico di come il pensiero unico cerchi di piegare alle proprie categorie di analisi qualsiasi fenomeno, è il caso della Cina.

La Cina è stata accolta, senza colpo ferire nel WTO rimuovendo d’un colpo, così come si farebbe  cancellando un dato con un tratto di penna, la questione della democrazia e dei diritti in quel Paese, nel quale, secondo Amesty International, ogni anno vengono mandati a morte 15.000 oppositori.

Cosa si può  pensar di fronte a queste cose? Cosa prova una ragazza o un ragazzo che cerca di capire come gira il mondo e se c’è un senso, una giustizia possibile al mondo?  Si può e si deve fare secondo chi l’ha voluta la guerra in IRAK, non più per le armi di distruzione di massa, ma per esportare la democrazia.

Ad oggi questa opera  di benevolenza costa secondo le stime dell’ IRAK BODY COUNT un numero compreso tra 28403 e 32013 di vittime civili, che si sommano ad una devastazione che durerà generazioni nelle coscienze di quelle moltitudini e della percezione che quelle persone hanno di noi, di quella che è per loro l’altra parte del mondo.

Si può giustamente porre al nuovo Governo della Palestina democraticamente eletto, una preliminare dichiarazione di abbandono e condanna della barbarie del terrorismo, facendo finalmente un uso preventivo della politica contro la violenza.

Ma tutto questo non si fa verso chi è iscritto al gran ballo della globalizzazione.

Abbiamo fatto bene ad opporci alla guerra, a scendere in sciopero il 20 gennaio del 2003 all’indomani dei primi bombardamenti. Fa bene la CGIL, e noi con lei, a continuare a chiedere il ritiro immediato del contingente militare italiano dall’IRAK.

Per quanto mi riguarda questo mi aspetto, come atto che, anche simbolicamente, dovrà compiere il Governo Prodi non appena insediato. Aggiungo personalmente che mi piacerebbe sapere cosa fanno e con quali risultati, il totale dei 10.000 ragazzi italiani impegnati in missioni militari all’estero, di cui non  si sa più nulla e che continuano a gravare sulle nostre coscienze, e sulle preoccupazioni di tante famiglie. Ma tutto questo non significa niente per il pensiero unico dominante o, più vicino a noi, per il nostro Governo uscente.

Rientra in uno schema di società, forse almeno questo, inconfessabile e pure da alcuni poteri, considerato auspicabile, nel quale convivono ragioni autoritarie, negazione della libertà, privazione dei diritti per i lavoratori al fine di determinare e sostenere la massima - eccola qui un’altra parola magica che tutto spiega e consente, una parola apparentemente neutra ed infatti usata e brandita da destra a sinistra - competitività.

A questo moderno leviatano, nuovo vitello d’oro, sono sacrificabili condizioni, diritti primari, libertà di base.

Questa parola compare nel lessico economico, politico, ed anche  sindacale, a partire dalla fine degli anni ’90. Risale a quegli anni la sostituzione del conflitto tra impresa e lavoro, tra lavoro e qualità della vita, tra tempi di lavoro e tempi di vita, con la competizione tra sistemi. Il conflitto tra interessi diversi diventa in questa chiave una turbolenza interna a ciascun sistema. La vera competizione si svolgerà, da allora in avanti, tra azienda ed azienda, o, in un crescendo di dimensione, tra sistemi di aziende, tra territori, tra nazioni o continenti. Ora questo è vero solo in parte, e soprattutto, non è vero che questa competizione globale cancelli il conflitto sociale e che la composizione di interessi diversi  non abbia più bisogno di regole, strumenti, reti che diano un senso alla parola eguaglianza.

Ma tant’è, da questo pensiero, vero e proprio tsunami anche culturale, chi più  chi meno siamo stati tutti travolti. Anche per questo  tutti noi abbiamo un formidabile debito di gratitudine con quei ragazzi, che, a partire da Seattle nel 2000 e nel 2001 a Genova, strapparono questo velo, mostrando a tutti noi i risultati effettivi di questo nuovo ordine mondiale, così come si è andato materialmente costituendo, dalla fine del mondo bipolare avvenuta con la caduta del muro del 1989.

Cosa resta sotto i nostri occhi di questo maremoto, che anche l’Italia nel 2002 ha sommerso?

Ora che l’onda si ritira?

Un Paese sull’orlo del baratro. Un Paese nel quale il declino industriale, economico, sociale, culturale e persino morale è più di un rischio.

Il declino dell’Italia non è il frutto di una insana retorica nichilista, né tanto meno, un messaggio di propaganda elettorale.

Ci sorreggono in questa convinzione, anche in questo caso, le analisi condivise nella nostra Conferenza programmatica e gli scarni numeri degli ultimi report dell’ISTAT e dell’EURISPES che coincidono negli indicatori principali.

Il valore che più degli altri segnala la mancanza di dinamicità ed innovazione dell’economia nazionale rispetto a quella degli altri Paesi, è la spesa per la ricerca.

L’Italia  appare ferma su valori intorno all’1% del PIL mentre, per guardare solo all’interno della U.E., continente che nel suo insieme è afflitto dalla stessa congiuntura economica, la Danimarca e la Germania spendono più del doppio.

Nel quinquennio 2000/2005 si è assistito ad un generale decremento di valori nell’apparato industriale, con diminuzione anche degli occupati pari a 139.400 addetti, e una vera e propria esplosione del lavoro precario.

La disuguaglianza sociale è in crescita. Se si prende a riferimento la suddivisione tradizionale per quinti della popolazione, fatta dalle statistiche relative al grado di ricchezza o povertà della società, si osserva che i 4/5 della società italiana si sono impoveriti, mentre si è arricchito solo il quinto più ricco.

Sei milioni di persone secondo L’ISTAT, secondo - l’EURISPES invece ben 7.500.000, - vivono stabilmente sotto la soglia di povertà. Ma il dato che riguardo alla diffusione della povertà nel nostro Paese considero più scandaloso, vorrei dire immorale, e quello dal quale risulta che un bambino su sei vive anch’egli in povertà, a proposito di sostegno alla vita così caro alle gerarchie ecclesiastiche.

Dove è il rigore, l’impegno, la tenacia nel denunciare queste cose da parte della gerarchia ecclesiastica?

Altro che volontari nei consultori!

Ancora una volta  le persone, i movimenti, si sono mossi prima della politica. Le donne sono uscite dal silenzio ed hanno promosso e dato vita alla grande manifestazione del 14 gennaio a Milano, ponendo in campo prima di tutto il loro diritto alla autodeterminazione e la loro libertà. Personalmente penso abbiano ragione quelli che ritengono che il grado di libertà di una società si misura sul grado di libertà delle donne, e la messa in discussione a 30 anni di distanza dal referendum sulla 194, di questa legge ci dice quanto la libertà di tutti noi in questo Paese sia in discussione.

Ma, per tornare a quei dati di cui dicevo, voglio infine ricordare, solo come esempio, ciò che il compianto Sylos Labini scriveva a proposito del rapporto tra la retribuzione dell’ impiegato meno pagato di un’azienda ed il suo Amministratore delegato: questo rapporto è passato nel corso degli ultimi 20 anni da 1 a 70 ad 1 a 1400.

Ovviamente la disuguaglianza non si abbatte in maniera uniforme su tutto il Paese. Il meridione d’Italia, se fosse un paese a sé stante, sarebbe l’ultimo dell’Europa a 25.

Ed infine secondo i dati diffusi dal S.I.L. (Servizio Informatico del Ministero del Lavoro), su 100 avviamenti al lavoro, 80 sono atipici.

Già abbiamo imparato, o sarebbe meglio dire ci hanno insegnato, a chiamarlo così.

A nascondere dietro questa parola il dramma di una condizione che mentre ti nega diritti, salario, sicurezza (secondo l’Inail il lavoro atipico è l’unica categoria nella quale nell’ultimo anno gli infortuni aumentano), precarizza la tua condizione sociale.

Recentemente, nel corso dell’ultima riunione del W.T.O., le maggiori organizzazioni sindacali internazionali tra le quali la CES, la CISL le Global Unions, hanno presentato una loro definizione del cosiddetto Decent Work (Lavoro Decente). Secondo questa definizione esso si fonda su quattro elementi: occupazione, rispetto dei diritti (sindacali, libertà di associazione, contrattazione collettiva), protezione sociale, dialogo sociale.

Nessuno di questi quattro elementi risulta stabilmente, come posso dire, costituzionalmente presente nel lavoro atipico.

Ma allora, se quello descritto è lavoro decente, non sarà più giusto chiamare d’ora in avanti il lavoro atipico lavoro indecente? Per parte mia si.

Come sapete la precarizzazione del lavoro ha invaso anche il nostro mondo. Pur in assenza di L. 30, che nei settori pubblici non si applica, abbiamo nei nostri settori al 31/12/2003 secondo la R.G.S. oltre 300.000 lavoratori precari che con il loro lavoro contribuiscono, per quello che possono, ad erogare i servizi, ma contemporaneamente precarizzano l’esigibilità dei diritti che dal lavoro pubblico dovrebbe essere garantita.

Questa prevalenza non solo quantitativa, ma fino a poco tempo fa anche la sua appetibilità culturale secondo talune elites, è dal mio punto di vista il frutto maturo, e probabilmente peggiore, di come la centralità del lavoro sia andata via via tramontando nella cultura e nella impostazione politica delle nostre classi dirigenti. Basti in proposito ricordare la differenza di impostazione tra la Costituzione repubblicana e quell’obbrobrio con la quale la si vorrebbe sostituire.

L’Art. 1 della nostra Costituzione non è solo il primo articolo, è una sorta di manifesto, di nucleo, intorno al quale si addensa e si costituisce lo spirito del dettato costituzionale.

Cosa rimane di quel valore, di quella idea di una cosa pubblica (repubblica fondata sul lavoro), nella società, nella cultura nella politica, nei dibattiti, di oggi? Ho ascoltato nel Congresso della Lombardia una bellissima intervista con l’On.le Tina Anselmi e l’ho sentita rievocare i dibattiti di quell’epoca e poi  dire pensando all’oggi: “che vergogna!”

Penso abbia ragione, e che non possiamo consentire che questa vergogna si abbatta, con il suo carico di ulteriore iniquità, sulle spalle del popolo italiano.

Al Refendum previsto bisogna dire, chiaro e forte il nostro NO.

Credo che, sia pure sulla base di questi pochi  cenni, si possa convenire sul fatto che esiste nel Paese una questione sociale i cui connotati e dimensioni non sono ancora senso comune. Una questione di portata tale da rendere privi di senso  termini come coesione od inclusione sociale.

In conseguenza di ciò, in mancanza di potenti antidoti, è lecito attendersi fenomeni di rivolta sociale o, se penso ai nostri settori, di proteste dal taglio corporativo.

Mi è capitato di ascoltare la risposta che un giovane cittadino, francese da tre generazioni, che partecipava alle rivolte nelle periferie urbane dava, a chi gli chiedeva perché si rivoltasse contro il suo paese, che non si sentiva francese, appartenente a quella nazione.

Mi domando, se questo è il principale fattore di rivolte come quella, perché un ragazzo di una “normale” nostra periferia urbana, magari di una nostra metropoli meridionale, dovrebbe sentirsi appartenente ad un Paese che reintroduce l’avviamento professione ed un diritto all’istruzione basato sul ceto sociale di appartenenza, che gli offre un lavoro precario/indecente spesso lontano da casa, che gli prospetta una vecchiaia incerta per i suoi genitori, e gli indica un futuro, per la prima volta, peggiore di quello della generazione che l’ha preceduto?

Il fondo dunque è stato toccato?

Possiamo da li ripartire? Oppure come ho sentito dire da un noto comico, ci siamo messi a scavare?

Non è nel destino che sta scritto che l’Italia debba rimanere nel gruppo delle nazioni più avanzate. Il Portogallo ad esempio era, appena 60 anni fa, una potenza di livello internazionale, oggi è nelle condizioni di generale difficoltà di altri paesi europei.

Per poter davvero far rinascere l’Italia occorre muovere dalla convinzione che questo stato dei fatti non è il prodotto indesiderato della globalizzazione irresponsabile o del liberismo senza regole berlusconiano. Questa architettura sociale, il cui fondamento è la disuguaglianza, viene infatti considerata utile, anzi indispensabile, per stimolare la competitività tra sistemi e dentro i sistemi, ed il darwinismo tra le persone.

Ecco perché non si tratta di razionalizzare il sistema o di contenerne gli aspetti più sgradevoli. Si tratta di operare un vero e proprio sovvertimento, di assumere un altro, ed autonomo, punto di vista.

Al progetto che avrebbe portato anche in Italia questi risultati, e ci avrebbe fatto conoscere cosa significa nel concreto realizzare questa idea di società, ci siamo opposti con grande vigore fin dal 2001. Ad altri sembrò, invece, che fosse necessario e possibile misurarsi e fare i conti con chi pareva, così si disse allora, dovesse durare, non una legislatura, ma dieci anni.

E’ da una analisi errata come questa che, a mio avviso, sono stati tratte in errore le persone  e le organizzazioni che ritennero possibile negoziare accordi di fondo con il Governo Berlusconi.

Rimane grande merito alla CGIL non aver creduto a questa ipotesi, essersi opposta radicalmente al progetto liberista, ed aver incrociato su questa strada persone e movimenti. Lo sa bene Berlusconi, che individua tra i soggetti che più tenacemente gli si sono opposti, la CGIL, che ha saputo in quella fase intercettare e dar voce ad una corrente profonda della società che c’era e, si badi bene, c’è ancora, e alla quale bisogna continuare a dare speranza e rappresentanza, se non si vuole che succeda quel che qualche sondaggista comincia a dire. Bisogna evitare, insomma, che alla fine, la manipolazione mediatica del centrodestra e quel che a me sembra l’errore del centrosinistra di giocare nel campo scelto dall’avversario, non convincano l’elettorato, che si era già astenuto nel 2001, a restare  a casa anche il prossimo 9 aprile.

Sono questi quei soggetti sociali, quelle persone che non intendono trasformarsi in individui, i cui rapporti sociali e le cui relazioni siano mediate dall’onnipresente mezzo televisivo. Sono quelli che come noi credono ancora nella  relazione tra persone, nella discussione collettiva, nella piazza, intesa come agorà, come luogo nel quale ci si incontra, si discute, si scambiano e si formano idee e convinzioni.

Sono, sarebbe forse più giusto dire siamo, quei 3,5 milioni di persone che hanno rappresentato il 23 marzo del 2002, emblematicamente, il blocco sociale che si oppone.

Da lì abbiamo rimesso in cammino una moltitudine apparentemente dispersa e ridato forza e vigore ad una opposizione che, definire, in quel momento, afasica, è ancora un eufemismo.

Ogni volta  che dall’ aprile 2001 si è votato, queste persone ci hanno mandato a dire che non ne possono più. Sembra a me che questa spinta sia stata sempre  positivamente raccolta dalla CGIL.

Non potrei dire altrettanto della politica. Abbiamo assistito a discussioni semestrali sui contenitori e sulla formule, spesso incomprensibili ai più, od al protrarsi di una scarsa visibilità dei programmi ed ad una mancanza di chiarezza sulle scelte di fondo.

Dopo lo straordinario successo del centrosinistra nelle ultime elezioni regionali solo noi, davvero noi, ed Epifani, volevamo che si votasse per mandare a casa il Governo.

Ci muoveva la convinzione che porre la grande questione democratica di un governo che governa senza consenso, fosse, per l’appunto una questione di democrazia.

Per risultati elettorali molto meno negativi il governo D’Alema si dimise, e più recentemente, G. Shroeder, da cancelliere in carica, ha deciso di recarsi anticipatamente alle urne. Ma più ancora ci spingeva la consapevolezza che ogni giorno di più di permanenza al governo del centro-destra, sarebbe stato un giorno di più di danni e guasti per il Paese e per le persone che rappresentiamo.

E basta solo dare un occhio ai provvedimenti approvati da allora ad oggi, dalla riforma costituzionale, alla ultima legge finanziaria, per rendersi conto di come i nostri timori fossero più che fondati.

Nel lavoro lungo e faticoso di formare e sostenere la coscienza dei cittadini che si sono opposti e che sono diventati via via maggioranza nel Paese, siamo stati aiutati da una del tutto speciale rappresentazione estrema del liberismo, e dal manifestarsi sulla scena nazionale di un polpettone insopportabile di populismo-autoritarismo in salsa clericale, che ha reso evidente, anche ai più ferventi sostenitori del credo liberista, l’infondatezza dell’assioma secondo il quale il privato è efficiente e redditizio, mentre il pubblico è inefficiente, costoso e, perché no, corrotto.

E’ emersa in questi anni, e si va consolidando nella società italiana, una richiesta crescente di pubblico e di buon governo della res-pubblica.

Altro che direttiva Bolkestain! O sua emendabilità.

Il voto che si annuncia al Parlamento Europeo è il frutto di un compromesso tra il gruppo socialista e quello popolare, in seguito al quale il principio del Paese d’origine è stato ridefinito, in maniera ancora ambigua, esclusa la Sanità dai settori sottoposti ad un regime di concorrenza, ma lascia irrisolte le grandi questioni dei servizi sociali, dell’acqua e dell’istruzione.

Si tratta di un risultato ancora insufficiente, di una mobilitazione grande, duratura nel tempo e che vede ancora oggi sfilare lavoratori di tutta Europa in una manifestazione di protesta a Strasburgo.

E’ un movimento importante, al quale hanno aderito soggetti istituzionali, politici e sociali diversi, alla cui promozione il sindacato europeo dei servizi ha dato contributo e spinta.

Colgo qui l’occasione per esprimere gratitudine alle compagne ed ai compagni che vi hanno lavorato, a cominciare da Anna Salfi, primo Presidente italiano e donna della FSESP che con il  al Congresso di oggi lascia la nostra Federazione, per un incarico nella CGIL dell’Emilia Romagna e che voglio qui non solo salutare, ma ancora ringraziare per il lavoro fatto con noi. Ma non voglio dimenticare anche il prezioso contributo che Enzo Bernando ha dato al nostro lavoro, che ha, non solo impegnato la FSESP,  su questa posizione, ma ha fatto, forse per la prima volta, di una vicenda legislativa Europea una questione che è diventata centrale per il sindacato italiano, per noi e per tanta parte dell’opinione pubblica.

 

Ma questo voto, se alla fine così sarà, segnala ancora una volta la difficoltà dell’Europa ad entrare in sintonia con i popoli che si vorrebbero tenere insieme.

Cosa penseranno gli elettori che, in Svezia, in Danimarca, in Francia, hanno votato contro l’ingresso nell’Europa o la ratifica del trattato per la Costituzione europea?

Che hanno fatto bene! Poichè l’Europa è un luogo che sempre più appare come sede di messa in discussione di diritti consolidati per chi li ha, e di mancata acquisizione di nuovi diritti per chi non li ha.

E, per favore, che non ci vengano a dire che la direttiva è un’ottima occasione per mettere in discussione i monopoli delle professioni e per favorirne la liberalizzazione.

 Sanno i sostenitori di questa tesi, anche nel centro-sinistra, che  le stesse forze che a Bruxelles hanno votato a favore della direttiva, nel Parlamento Italiano, hanno nei giorni scorsi approvato (a proposito di ogni giorno un danno in più) una norma che istituisce sei nuovi albi professionali in sanità?

Ed in ogni caso, questa idea della buona opportunità offerta dalla Bolkestein, sembra a me come quella frase pronunciata da un personaggio di un film di Troisi nel quale un fautore del fascismo dichiarava che almeno con la dittatura i treni arrivavano in orario.

 

E giustamente Troisi rispondeva: e che, c’è bisogno di farlo capo del Governo? Bastava farlo capostazione.

Più seriamente possiamo ricordare che non fummo certo noi al tempo del governo dell’Ulivo ad impedire al Parlamento di approvare una legge in questa direzione. Più semplicemente la legge si impantanò per la capacità lobbistica degli albi e delle corporazioni di fare pressione sull’intero arco di forze parlamentari.

Noi non ci siamo e non ci saremmo opposti. 

Mentre, siano certi quelli che quella direttiva volessero applicarla, che noi ci opporremo con ogni mezzo, insieme alla CGIL, ai Consigli comunali, provinciali, al sindacato europeo.

Dovremo essere capaci di sostenere nella riprogettazione dell’Italia, un altro punto di vista: il risanamento del Paese non si fa applicando una ricetta liberista al netto di Berlusconi, magari temperata da un po’ di concertazione.

Ci sostengono in questa convinzione non solo una posizione politica, ma i risultati che le ricette tradizionali hanno prodotto, non solo nel mondo, ma anche nel nostro Paese.

I fatti che stanno dietro di noi si sono incaricati di dimostrare come la scelta di privatizzare i servizi non abbia comportato il raggiungimento nemmeno di quello che poteva sembrare l’obiettivo primario e più semplice da raggiungere. Lo dice una inchiesta fatta nei comuni dal Formez, lo dice persino, in una sua tavola rotonda del 2004, l’OCSE a proposito della privatizzazione dell’acqua in Italia, e l’inchiesta che stiamo facendo insieme con Attac Arci e rete del Nuovo  Municipio, della quale avete  un primo rapporto nella documentazione del consenso sui risultati delle privatizzazioni.

Ma ancor di più ce lo dice l’esperienza di alcune nostre vertenze, penso a quella contro la privatizzazione dell’acquedotto regionale in Sardegna, o il nostro senso comune.

Ho letto e prendo atto positivamente del giudizio negativo dato  congresso della FILT CGIL sulla privatizzazione delle Ferrovie dello Stato, e non posso non vedere il risultato delle privatizzazioni delle grandi infrastrutture del nostro Paese: banche, autostrade, assicurazioni. Non c’è settore nel quale la privatizzazione abbia portato aumento dell’efficienza e/o riduzione dei costi per i cittadini e le imprese servite.

Si è confuso la sacrosanta necessità di liberalizzare, con la scelta di privatizzare, non tenendo in alcun conto le scelte di altri Paesi Europei, che hanno introdotto la liberalizzazione mantenendo la natura pubblica dei servizi, introducendo cioè concorrenza tra soggetti pubblici e tra pubblici privati.

La scelta fatta in Italia è frutto certo delle pressioni operate da un capitale più volte giudicato asfittico e che fa capo a pochi grandi gruppi e famiglie, che con accordi tra loro decidono e, loro si, davvero regolano il mercato, provocando in questo modo il passaggio da monopoli pubblici ad oligopoli di natura privata, non meno dannosi per i cittadini. Ma è anche il frutto di un pregiudizio ideologico, del quale sono stati e sono facile preda, anche i governi locali di centro sinistra.

Ho letto recentemente i risultati di un inchiesta, fatta dal Politecnico di Milano nell’anno accademico 2002/2003, sulle aspettative ed i risultati delle collaborazioni pubblico privato, operata nelle direzioni strategiche delle aziende sanitarie lombarde. Dalla ricerca risulta che, sebbene la motivazione principale del ricorso a dette collaborazioni fosse l’aumento di efficienza delle prestazioni rese (quasi il 70% delle risposte), nessuno di loro aveva provveduto a predisporre ed implementare indicatori di misurazione dell’efficienza con i quali misurare il raggiungimento degli obiettivi.

E che dire della maggiore efficienza? La realizzazione (in project financing) di nuove strutture ha richiesto lo stesso tempo, tra la decisone di investimento e l’avvio dei lavori, che occorre negli appalti gestiti interamente con strutture pubbliche e finanza tradizionale. Un velo pietoso è meglio stendere infine sul risultato ottenuto in termini di legalità e di maggiore resistenza alle penetrazioni malavitose nel sistema, di cui recentemente si sono occupate le cronache.

Abbiamo intuito, con uno slogan coniato all’epoca dell’elezioni delle RSU del 2004, che questa stagione poteva essere aiutata a declinare.

Coniammo allora lo slogan “pubblico è meglio”.

Dicemmo, lungo tutta la campagna elettorale, alle migliaia di persone che abbiamo incontrato, che per noi quello, più che uno slogan, era un impegno.

Il paradigma di un programma che, se confortati dal consenso, avremmo provato a stendere.

Lo abbiamo declinato nella Conferenza di programma di giugno ed ora proviamo a consolidarlo nel nostro Congresso e con il posizionamento assunto nel Congresso confederale.

Anche per questo motivo abbiamo sostenuto ed approvato la scelta di celebrare il congresso prima delle elezioni. Per provare a costruire consenso, non solo in categoria, fatto tutto sommato scontato, ma nella CGIL, e nel programma di chi si candida a governare il Paese dopo il 9 aprile, su queste proposte.

Abbiamo cercato di affermare, ci pare con qualche consenso, la assoluta centralità, nella progettazione del Paese, della definizione di un nuovo spazio pubblico. La ridefinizione e l’affermazione del diritto ad esistere di questo luogo nella struttura sociale, già caro al pensiero liberal democratico sotto il nome di sfera pubblica, è infatti preliminare ed indispensabile per porre fine alla prevalenza dell’economia, ed in specie dell’economia finanziaria, come unico e principale fattore di regolazione delle dinamiche, non solo economiche, ma anche di quelle politico sociali.

Noi viviamo in un epoca nella quale si assiste ad una curiosa quanto paradossale rivincita della teoria di base marxiana. Quella per la quale, la struttura che informa di sé, e determina la società e tutti i rapporti che al suo interno si determinano, è quella economica.

Tutto da essa discende e si muove. Bisogna invece riaffermare la capacità della politica di governare la società, regolarla ed indirizzarla verso un benessere ed uno sviluppo condiviso e sostenibile. Ed invece assistiamo al paradosso odierno, per dirla con l’ultimo scritto di G. Ruffolo, per il quale non sono i governi a regolare l’economia finanziaria e le banche ma le grandi banche e le agenzie finanziarie a regolare, tramite i rating ed altro, l’azione dei governi. Dunque la sfera pubblica è prima di tutto il luogo nel quale si afferma il governo del pubblico in economia, la possibilità cioè che l’economia sia regolata ed indirizzata lungo coordinate che rappresentano l’interesse generale.

Per fare ciò bisogna in primo luogo riaffermare la separazione tra la politica e la gestione.

Se ci si pensa bene le vicende di Bankitalia e dintorni, che ci hanno afflitto per qualche mese, sono solo l’esempio più alto della sovrapposizione, e qualche volta dello scambio di ruoli, tra politica ed amministrazione. Vi è stata in questa vicenda un deficit di politica di governo, cioè di regolazione di una importante dinamica finanziaria, che incideva su equilibri generali del Paese, ed in alcune fasi, un’ inversione di ruoli, nei quali chi gestiva per conto non dell’interesse generale, ma di questa o quella parte, indicava alla politica cosa fare.

Nella scelta di tornare a separare la politica dalla gestione, vi è anche la riaffermazione di un ruolo di terzietà del lavoro pubblico, che rende possibile praticare quel principio di legalità e di difesa dalla contaminazione dalla malavita organizzata delle attività pubbliche.

Non andiamo vagheggiando nuove, ed un po’ ridicole, centralità, come qualche stolto nel dibattito confederale ha voluto fingere di credere. Ma siamo convinti che soprattutto nel Sud del Paese, la riaffermazione della legalità passa per una pratica del lavoro pubblico che non sia subalterno alla politica. Un lavoro pubblico quindi che non svolga, come oggi purtroppo in gran parte dei casi succede il compito di rendere formalmente legali, attività economiche sostanzialmente illegali.

Lo spazio pubblico è infine quel luogo della società nel quale si rendono accessibili quei beni primari naturali, quali l’acqua, la salute, l’istruzione, la cultura, che si chiamano, nel dibattito degli ultimi anni beni comuni.

La produzione e la messa a disposizione, per dirla meglio, la garanzia del diritto di accesso universale, indipendentemente dalle condizioni di censo e dal luogo di nascita, di questi beni, è infatti indispensabile a garantire il benessere delle persone, ora che è evidente a tutti che non vi è arricchimento individuale sufficiente a garantire l’esigibilità di questi diritti.

Solo la proprietà e la gestione pubblica di questi beni garantisce la loro esigibilità, rispondendo per questa via non solo ad un sacrosanto criterio di giustizia sociale, ma provvedendo, se i servizi sono erogati in maniera non onerosa per i cittadini, a riequilibrare il reddito in quantità ed in tempi tali che nessun assetto del CCNL da solo potrà garantire. Per questo va superata l’idea del welfare come sostegno a chi è rimasto indietro: welfare benevolente, caritatevole, compassionale o, addirittura, della filantropia. Al suo posto va affermato un welfare dei diritti che sostiene e produce reddito.

Che qui ci sia un nodo cruciale, una scelta dirimente, che distingue l’azione di un governo di destra, da uno di sinistra, lo dimostra la pervicacia con cui il governo uscente si è applicato contro il lavoro pubblico.

Decontrattualizzazione, impoverimento, riduzione dei livelli occupazionali, precarizzazione, demolizione culturale fino all’invettiva, non verso il lavoro, ma contro il lavoratore pubblico, sono stati i tratti distintivi dell’azione di governo. Per questo difendere il nostro lavoro, il nostro diritto ad avere i CCNL, ha assunto i tratti di un movimento più generale finalizzato alla difesa dei diritti che produciamo. Ed è ancora per questo che tante persone hanno guardato infine con occhi nuovi a quel movimento unitario, che lungo questi quattro anni ci ha portato a fare otto scioperi generali di categoria e quattro grandi manifestazioni nazionali. Nella scorsa settimana abbiamo sottoscritto l’ultimo dei quattro grandi CCNL. A noi pare che nel contesto nel quale ci siamo mossi siano state buone intese.

E’ questo deve pure essere parso a quei lavoratori che hanno dato nelle ultime elezioni il loro consenso a CGIL-CISL e UIL in una misura intorno a 3/4 della platea elettorale e che ci hanno voluto premiare, confermandoci come primo sindacato. Ma è necessario che, come da accordi che prendemmo a maggio all’atto della sottoscrizione dell’intesa con il governo, le lavoratrici ed i lavoratori, della Sanità e delle AA.LL. e delle Agenzie Fiscali, esprimano ora nelle assemblee il loro consenso sugli accordi, che sono sicuro non mancherà, come è già avvenuto nelle assemblee fatte per i rinnovi dello Stato, degli Enti Pubblici, e dei VV.F.

Se c’è un punto invece sul quale occorrerà riflettere, rispetto alla nostra lotta, è quello relativo alle modalità imposte dalla L. 146 e dalla peculiare interpretazione che ne dà la Commissione di Garanzia. La legge è ormai interpretata e vissuta, dalle lavoratrici e dai lavoratori che rappresentiamo come una limitazione del diritto di sciopero e non certo come una sua regolamentazione. Voglio leggervi in proposito una delle tante lettere che più o meno quotidianamente ricevo:

mi chiamo..............lavoro a Ferrara sul 118 emergenza-urgenza e sono componente RSU Az. ASL CGIL.

Dopo aver letto il telegramma da voi scritto all’O.le Vasco Errani e altre circolari riguardanti le iniziative da intraprendere per raggiungere l’obiettivo “Contratti di Lavoro Sanità” e parlandone con il personale, a fronte di questa situazione ormai insostenibile e inaccettabile, confermo che si può procedere con manifestazioni, mobilitazioni, ma con la carenza di personale presente in reparto oggi (siamo ai minimi dello sciopero), questo fa pensare alla impossibilità ad una partecipazione massiccia allo sciopero ed inoltre c’è anche il fondato sospetto che, come solito, questo sacrificio economico passi inosservato.

Sarebbe più opportuno bloccare totalmente gli ospedali, compresa l’Emergenza, per almeno 48 ore e fare intervenire la Protezione Civile. E se tutto questo non bastasse questo blocco totale si dovrebbe ripetere. Sarei curiosa si vedere se ci “precettano” in 500.000. Sicuramente, a mio avviso, dopo aver messo in ginocchio il Sistema Sanitario Nazionale, il Governo provvederà immediatamente a firmare il contratto dei lavoratori della Sanità Pubblica.”

E’ evidente che, se a questa oggettiva situazione, si somma un atteggiamento irresponsabile del governo, per cui si dichiara tutti i giorni che lo sciopero è inutile, e si dà il segnale che ci si occupa di una vertenza solo in presenza di gesti clamorosi, si diffonde inevitabilmente la convinzione che per ottenere risultati bisogna “rivoltarsi”.

Per questo, mentre confermiamo la nostra scelta, che risale al Congresso di Palermo del 1986, di difendere e tutelare i diritti delle persone che da noi attendono l’erogazione di un servizio, diremmo oggi l’accesso ad un bene comune anche quando lottiamo, rivendichiamo la necessità di rivedere profondamente la L. 146/90 e le sue modifiche, riequilibrando lo strapotere della Commissione di Garanzia, superando le letture e le interpretazioni burocratiche delle norme, come quelle della conciliazione al Ministero del Lavoro, del principio di saturazione degli scioperi, della ripetizione del preavviso, e dell’impossibilità di passare dalle prime 24 ore di sciopero a forme più durature, nel caso di vertenze lunghe come quelle fatte in questi anni, anche quando, tra un azione e l’altra, sono trascorsi più di 90 giorni, essendo chiara l’unità di una vertenza come quella per il rinnovo del CCNL.

E’ sempre più difficile, infatti, comprendere e spiegare perché, in presenza di una competizione elettorale amministrativa i lavoratori, che so, dell’Agenzia delle Entrate - di un servizio cioè che nulla ha a che fare con un regolare svolgimento delle elezioni - di quella regione, provincia o comune nel quale si vota, non possono ad esempio partecipare ad uno sciopero nazionale. Oppure credere che sia verosimile un percorso nel quale, prima di poter dichiarare sciopero, in caso di rottura con il Governo nazionale sulla stessa apertura del negoziato contrattuale, si debba attendere sempre all’ultimo dei giorni possibili, la convocazione di un valente funzionario del Ministero del Lavoro che, dopo essersi fatto raccontare dalla delegazione sindacale gli ultimi sviluppi della vertenza, non può ovviamente che limitarsi a verbalizzare la mancata conciliazione. In realtà questo è ormai un sistema con il quale il preavviso passa da 10 a 15 giorni, con un ulteriore perdita di tempestività della risposta sindacale, al comportamento negativo della controparte. Dovrà inoltre essere garantito il c.d. diritto di tribuna, con accesso alle reti pubbliche, allo scopo di spiegare ai cittadini le motivazioni di una vertenza quando essa riguarda la possibilità stessa che il negoziato si apra, come per l’appunto in questi anni è stato. Se questi interventi almeno non saranno fatti, penso che l’esplosione di lotte corporative nei nostri settori, rischia di essere  solo questione di tempo.

Rendere certo il rinnovo del CCNL è dunque per noi il primo punto di una discussione sul nuovo modello contrattuale.

Ritengo infatti indispensabile, se si vuole davvero riconfermare e rafforzare la contrattualizzazione del rapporto di lavoro, che si debba necessariamente superare l’attuale sistema, che rende inesigibile il contratto in tempi certi, anche dopo la sottoscrizione all’ARAN. Prevedendo l’attuale normativa la conferma dell’intesa da parte del Comitato di Settore, del Governo e della Corte dei Conti, prima della stipula definitiva, senza che siano fissati i termini perentori di completamento di questo itinerario. Ecco dunque perché, anche quando il CCNL viene rinnovato, come in questa tornata con due anni di ritardo, succede che il contratto può essere trattenuto ad libitum, ad esempio, da un oscuro funzionario della RGS che, in un delirio burocratico di onnipotenza, priva ulteriormente milioni di lavoratrici e lavoratori del loro sacrosanto diritto a vedere in busta paga il risultato delle loro lotte e mobilitazioni. Che poi questo avvenga perché, per questa via, si può fare l’ennesimo gioco di prestigio sui conti da presentare in sede europea e sui fabbisogni di cassa, o, addirittura per l’impulso irresistibile del singolo funzionario, che ritiene irresponsabilmente di intervenire lui a correggere le mediazioni faticosamente raggiunte, è cosa che aggiunge al danno la beffa.

Oppure si potrebbe dire, come diceva il noto commediografo, che la situazione è tragica, ma niente affatto seria.

Per questi motivi, ed in definitiva per difendere efficacemente il CCNL, riteniamo indispensabile che i 45 giorni, già indicati nelle norme attuali come termine entro il quale il percorso di stipula definitiva debba compiersi, venga assunto come termine perentorio, trascorso il quale, attraverso l’istituto del silenzio assenso, il contratto si intende definitivamente stipulato e quindi esigibile.

Il voto congressuale sulla tesi n. 8 ha avuto un andamento tale che credo consenta di posizionare tutta la CGIL sul modello lì proposto.

E però se il fine cui tendono sia il modello risultato prevalente, che quello contenuto nella tesi alternativa, è, non solo quello di difendere il potere d’acquisto, ma anche quello di riequilibrare la distribuzione della ricchezza nel Paese, io credo sia necessario aggiungere qualche altra considerazione. A conclusione del quadriennio contrattuale che è alle nostre spalle, avremo avuto un incremento lordo medio mensile delle nostre retribuzioni pari a circa 210 euro mensili. Nel contesto dato non siamo certo tra quelli che hanno avuto un risultato tra i peggiori dell’intero mondo del lavoro. E tuttavia, oltre ad essere un risultato non in linea con l’inflazione reale, segnala. a mio avviso, la necessità di ripensare a che cosa è oggi il potere di acquisto. Se infatti in un nucleo familiare formale o di fatto, poco importa, capita, prendendo ad esempio i due estremi del segmento anagrafico sociale, che sia necessario iscrivere una bimba o un bimbo all’asilo nido o che, si  abbia bisogno di sostenere un anziano non autosufficiente, magari semplicemente attraverso il servizio offerto da una “badante”, il reddito disponibile di quel nucleo calerebbe bruscamente, diciamo prudentemente, di qualcosa come 6/700 euro.

Come si può non porsi il problema che deriva dal fatto che per recuperare questa “uscita” dal bilancio familiare avremmo bisogno, non tenendo conto che per gli incrementi da CCNL ho ovviamente parlato di cifre lorde  mentre per le uscite di cifre al netto, di almeno tre cicli quadriennali?

Insomma, trasformare servizi a domanda individuale in servizi di interesse generale, affermare e rendere esigibile un nuovo welfare dei diritti, è oggi, oltre che un esigenza di civiltà, un modo, forse l’unico, che insieme al nuovo modello del CCNL proposto, ed ad una diversa politica fiscale che sostenga i reddito da lavoro, difenda e migliori il potere d’acquisto; un nuovo potere d’acquisto che faccia uso di tre leve: incrementi salariali, nuova struttura del prelievo fiscale, Welfare dei diritti.

Appare chiaro in questo quadro che, se l’obbiettivo da assumere è quello di rendere meno oneroso l’accesso ai servizi da parte dei cittadini, non si può iniziare affermando che quelli che oggi non si pagano, o si pagano poco, devono essere privatizzati e sottoposti a regole di mercato. E proprio da questa convinzione che discende il nostro  posizionamento contro la privatizzazione e per il mantenimento nelle mani pubbliche della gestione delle acque.

Così come è fondamentale che la CGIL abbia compreso, o almeno così speriamo, e che il Governo di centro sinistra comprenda, che la questione del lavoro pubblico non è questione da affidare ad una politica di settore, in quanto costituisce il nucleo centrale di una nuova politica economica e sociale.

Di questa nuova collocazione del lavoro pubblico, un elemento cruciale è rappresentato da una profonda riflessione che dovrà essere fatta sul ruolo del III° settore.

Bisogna con coraggio interrogarsi sulla coerenza che c’è, nella realtà che incrociamo tutti i giorni, sia a livello territoriale che nazionale, tra ciò che il terzo settore dovrebbe essere in base alle dichiarazioni e gli impegni che i soggetti interessati, tra i quali anche CGIL-CISL-UIL, assumono nel forum, e come concretamente questi impegni si manifestano. Dal nostro punto di vista infatti il terzo settore è sempre più una modalità organizzativa di servizi pubblici, lontana dall’essere quella modalità, pure promessa nel forum, sussidiaria, integrativa, aggiuntiva, perché in grado di offrire risposte più flessibili o sofisticate ai bisogni e alle dinamiche anche nuove che la società pone. Si tratta sempre più spesso di lavoratrici e lavoratori che sostituiscono, nelle strutture pubbliche, lavoratrici o lavoratori pubblici, con però contratti frantumati, che danno loro meno diritti ed ovviamente meno salario, e che offrono, quando va bene, servizi pubblici del tutto uguali a quelli che erano erogati da lavoratori pubblici tradizionali.

Ne consegue un assetto organizzativo che fa quindi del costo del lavoro l’unico fattore di competizione con il lavoro pubblico tradizionale, e costituisce una difficoltà permanente nei tavoli contrattuali ad affrontare altri temi, che non siano quelli che rispondono all’unica ed incessante richiesta che avanza la controparte: tenere i minimi salariali il più possibile distante da quelli dei CCNL pubblici. Se questo poi comportasse che la tariffa corrisposta ai titolari del servizio fosse destinata a migliorare, come pure dovuto da organizzazioni che sono a termini di legge senza scopo di lucro, le condizioni di chi lavora, soci o lavoratori dipendenti che siano, tutto avrebbe ancora un senso.

Ma la realtà è ben diversa, e nessuno sa davvero che fine fa ed per quali finalità viene utilizzato il differenziale  tra le tariffe per ora lavorata e la paga che ci si ostina a volere oraria, dei dipendenti di queste strutture. E perciò quindi che considero, generosa, ma difficile  da ottenere come risultato del tavolo contrattuale, la proposta unitaria di CGIL-CISL-UIL, di passare in questo comparto da 10 CCNL, ad un unico contratto, se questo obiettivo non viene assunto nel forum come parte di un più generale ripensamento sulle questioni che ho esposto.

Allo stesso modo trovo indispensabile definire, per parte nostra, il contributo che intendiamo portare a questa nuova idea del lavoro pubblico.

Non farò in questa relazione l’ennesimo elenco delle riforme legislative da fare. Penso invece che molto sia affidato ad un diverso profilo della nostra contrattazione integrativa che, per tornare a svolgere il compito che le era stato affidato, deve essere liberato dal compito improprio di surrogare le lacune del CCNL nella difesa delle retribuzioni di fatto.

Se il CCNL sarà come l’abbiamo delineato, ed il nuovo potere d’acquisto sarà definito come qui ho provato ad ipotizzare, è necessario che i nostri contratti integrativi tornino a misurarsi primariamente con la qualità del nostro lavoro, che poi significa dei servizi e della reale esigibilità di quelli che nel nostro Congresso abbiamo definito beni comuni. Così come è necessario costruire e partecipare ad un livello di contrattazione sociale che non può che essere territoriale, che, certo, è per sua natura confederale ma non può essere affidato solo alla Camera del Lavoro od, al più, allo SPI.

Ma tutto questo non sarà comunque possibile se non si porrà fine alla corrosione che della fabbrica  dei diritti, come a me piace chiamare il nostro lavoro, sta provocando la precarizzazione.

Per questo abbiamo presentato uno specifico emendamento al documento congressuale della CGIL, che qui richiamo solo per titoli. Ciò che voglio però sottolineare è l’idea di una nuova politica occupazionale nel lavoro pubblico che è sottesa a quell’emendamento, per la quale bisogna superare il sistema del blocco indistinto delle assunzioni e delle deroghe. Con 300.000 lavoratori che fanno lavori che non hanno nulla di atipico rispetto al ciclo ordinario di produzione dei servizi, ma che sono solo portatori di un lavoro indecente, così come definito dall’inizio di questa relazione, con la restante parte dei lavoratori demotivati e con un età media di over 50, con una spesa per la formazione ed aggiornamento del personale a dir poco marginale nei bilanci degli enti, la nostra idea del lavoro pubblico non va da nessuna parte, e, secondo il nostro punto di vista, la stessa riprogettazione e  rinascita del Paese stenta a partire.

Certo c’è, e ci sarà, un problema di risorse, ma bisognerà pure attuare una attenta verifica di quanto le amministrazioni spendono, e di ciò che si perde nel funzionamento della macchina.

Penso in primo luogo all’aggregato di spesa per acquisizione di beni e servizi, la cui crescita iperbolica è stata più volte denunciata dalla Corte dei Conti, ed ad una invece necessaria e non più rinviabile nuova politica in questo delicatissimo settore delle Pubbliche Amministrazioni.

Dobbiamo dunque compiere un viaggio di ritorno ad un’idea di società nella quale la parola eguaglianza abbia senso e valore, e nella quale la libertà, sia prima di tutto libertà dal bisogno, dalle ingiustizie, delle mafie, libertà di crescere e di tornare a sperare e credere in un futuro migliore del nostro presente.

Questo è stato ed è del resto il cuore del nostro Congresso e del nostro posizionamento nel Congresso Confederale. Ed è un cuore che batte forte, posso dirlo qui, alle soglie del Congresso Nazionale della CGIL, con alla spalle migliaia di assemblee, i congressi territoriali, i regionali di categoria quelli delle Camere del Lavoro e quelli regionali confederali.

Sono stati congressi di una organizzazione dotata di una nuova consapevolezza. Con umiltà, ma con fermezza, ci siamo assunti la responsabilità di assumere un ruolo protagonista nel Congresso della CGIL.

Con la consapevolezza della nostra forza, e senza ridicole pretese egemoniche, avanziamo da qui, alla CGIL ed alla politica, la nostra proposta e le nostre richieste.

E’ per poter far questo che, del resto, abbiamo, per come potevamo, contribuito alla scelta del congresso unitario e della sua collocazione temporale.

Alla definizione delle posizioni della CGIL provvederà il Congresso di Rimini, nel quale, fino in fondo, faremo la nostra parte. Abbiamo il vigore che ci deriva dall’andamento del nostro Congresso ad iniziare da una  straordinaria partecipazione alle assemblee di base, che è stata di oltre 20 punti percentuali superiore alle media del nostro precedente congresso .

Le persone che hanno partecipato hanno aderito ai nostri emendamenti con una percentuale superiore al 99%. Nessuna rottura di rilievo del percorso unitario si è avuta nei congressi territoriali e regionali, né vi sono stati tentativi di trasformare il confronto su tesi diverse in una conta pari a quella che si determina sui documenti globalmente alternativi.

I nostri emendamenti sono stati assunti dalle commissioni e approvati nelle sedute plenarie delle più importanti Camere del Lavoro e della quasi totalità dei congressi regionali confederali.

Certo, ma questa è anche la prova che ciò che diciamo ha un peso ed un significato e non scorre via come acqua sul vetro, non tutta l’organizzazione confederale ha reagito sempre positivamente. E’ successo qui e là che taluni ci accusassero di voler generare una dialettica eccessiva tra categoria e confederazioni, di avere pretese di autosufficienza. E’ successo persino, e questo è il dato che ho trovato più curioso, che categorie con le quali abbiamo lavorato fianco a fianco nei movimenti di questi anni a sostegno dei beni comuni, abbiano votato contro il nostro emendamento su questi temi e sulla loro assunzione nella tesi della CGIL riguardo la politica economica.

Sapete com’è. Ogni tanto succede che il saggio indichi la luna e lo stolto guardi il dito.

Confermo in ogni caso  qui la volontà della categoria a non rivendicare alcuna stupida primazia, ma al contrario, la nostra disponibilità a trovare, sui temi che abbiamo proposto, le convergenze più ampie possibili.

Ciò che era, all’inizio del percorso congressuale, vero solo per noi comincia ad essere un po’ più vero anche fuori di noi. Pensate alla vicenda dell’acqua intesa come bene comune; o alla nostra idea di lavoro pubblico, od al valore del tema dell’eguaglianza.

Nel programma di Prodi, anche se ancora non tutti se ne sono accorti, si fà esplicito riferimento alla inopportunità di privatizzare, anche nella gestione, l’acqua e si assumono molti dei nostri punti di vista sul lavoro pubblico, mentre, anche fuori  di noi, nei commenti sulla stampa di grandi opinionisti e persino nei congressi di altre organizzazioni, il valore dell’eguaglianza viene assunto come centrale per riequilibrare le ingiustizie da cui è pervasa la società attuale.

Alla politica, a quella che si candida a governare il Paese, dopo il 9 aprile, chiedo di ascoltarci e di fidarsi di noi.

Un po’ del merito se sono in corsa, è anche nostro, oltre che della CGIL nel suo insieme.

Non so dire, ad esempio, se il risultato delle elezioni regionali del Lazio e della Puglia, senza il movimento per i CCNL pubblici e senza la grande manifestazione nazionale che, solo poco più di dieci giorni prima delle elezioni regionali, traversava le strade di Roma, il risultato sarebbe stato uguale. Per quello che  abbiamo fatto e per quello che potremo ancora fare abbiamo il diritto di parlare e loro il dovere di ascoltarci.

Mi è capitato, prima di mettermi a scrivere la relazione, di chiedere a qualche delegata e delegato cosa si aspettava dal nostro congresso. La risposta  che ho avuto, ispira e sorregge, tutto il ragionamento che conduce alla conclusione di questa relazione.

Ciò che mi sono sentito dire, suonava più o meno così: ci aspettiamo che tu dica che la FP e la CGIL continueranno a fare quello che han fatto fino ad oggi, a difenderci, a difendere le persone che tante speranze hanno riposto in lei, sostenendo, in autonomia, le nostre richieste ed il nostro punto di vista. Nel nostro linguaggio, e nei nostri dibattiti di questi anni, abbiamo definito così questo concetto: affermare la pari dignità della rappresentanza sociale con quella politica.

Ciò non significa indifferenza o neutralità! Conosciamo la differenza che c’è tra un confronto, aspro finché si vuole, con chi rappresenta punti di vista ed interessi diversi dai nostri, e la lotta invece per l’affermazione, per la sopravvivenza del ruolo dei corpi intermedi e della mediazione sociale nella società odierna. Ma essere autonomi significa essere liberi da condizionamenti e rivendicare con forza pari dignità con la politica.

In proposito mi sono convinto che ciò dipende sicuramente dalla nostra determinazione, dal mantenimento di un solido rapporto democratico con le lavoratrici ed i lavoratori, ma anche da come, con quale schieramento, ci presenteremo al confronto.

Parlo per noi, non avendo la pretesa di impegnare in questo ragionamento altri che non la nostra categoria, ed i nostri interlocutori di CISL e UIL, se ovviamente vorranno.

Nella stagione che verrà, presentarsi divisi vorrà dire essere meno autonomi.

Ma perché, io mi chiedo, e chiedo alla FPS, UIL alle UIL FPL ed alla UIL PA, ai miei amici Rino, Carlo e Salvatore, dobbiamo continuare a lavorare così?

Non sottovaluto, anzi considero un risultato straordinario, ciò che fino ad adesso abbiamo fatto.

Abbiamo, vorrei dire da sempre, una politica contrattuale unitaria; abbiamo una legge sulla rappresentanza, che si deve al lascito straordinario di Massimo D’Antona ed a un gruppo di dirigenti del sindacato, che ha ideato, voluto, e  sostenuto questo formidabile strumento di democrazia, e che in CGIL ha voluto e sostenuto, all’inizio anche in qualche solitudine, e che colgo l’occasione per ringraziare qui per la caparbietà con cui l’ha fatto, Paolo Nerozzi. Abbiamo ancora uno straordinario tessuto connettivo, che tutti i giorni ci tiene insieme nei posti di lavoro, con più di 13.000 RSU. Abbiamo, infine, un’idea del ruolo e del valore del lavoro pubblico, che registra tra noi differenze che mi permetto di dire marginali. Ma perché, se è lecito fare una battuta, dobbiamo, essendo peraltro un quartetto, continuare come certe coppie a vederci di nascosto.

Io penso che, e sarebbe uno straordinario contributo della nostra leva di gruppi dirigenti, nella storia lunga di ciascuna delle nostre organizzazioni, dovremmo provare a costruire forme di raccordo e organismi che rendano un po’ più stabili i rapporti tra noi.

Ringrazio ogni giorno la fortuna di aver incontrato persone come Rino, Carlo e Salvatore, della cui amicizia mi sento onorato. Ma temo che la semplice unità d’azione non basti più. In sintesi vi chiedo se, escludendo fin d’ora l’approdo ad un qualsiasi sindacato unico, di provare invece a ripercorrere anche criticamente, con i necessari aggiornamenti, la strada di una grande federazione unitaria del lavoro pubblico. Proviamo quindi a costruire un gruppo di lavoro che, anche con il supporto eventuale di esperti ed il contributo di quanti volessimo individuare possa consegnare, entro quest’anno, agli organi dirigenti di ciascuna delle nostre federazioni, una proposta.

Poi, a quel punto, prima ognuno per nostro conto, e poi insieme valuteremo e decideremo.

E però, permettetemi infine di sottolineare ancora una volta il peso che insieme avremmo nel rappresentare, ovunque e con chiunque, le ragioni delle persone che a ciascuna delle nostre organizzazioni si affidano.

In ogni caso stiano tranquilli quelle delegate e quei delegati che ce lo hanno chiesto.

L’autonomia sarà il nostro metodo. Il Governo uscente ci ha privato per la prima volta nella storia recente, anche formalmente, della possibilità di rinnovare i contratti per il quadriennio appena iniziato, ma nessuno tra i leader dell’opposizione si è sbracciato per questo. Penso che questo sia un problema e anche su CCNL pubblici si possa  farlo sapere, provare a far ripartire, il dibattito sul confronto elettorale, su temi cioè un po’ più concreti  e palpabili dei temi scelti da Berlusconi nelle ultime settimane.

Sarà il caso che si sappia fin d’ora che fare i contratti pubblici non è una facoltà, una libertà del governo che verrà, ma che questo sarà per noi il primo banco di prova.

Così come, se privatizzare i beni comuni è sbagliato, è chiaro per me, che non sarà un po’ di concertazione, con l’aggiunta dell’immancabile promessa di salvaguardia dei diritti acquisiti per i lavoratori in servizio coinvolti, che ci farà cambiare idea sulle privatizzazioni.

E’ per me in ogni caso chiaro che quando CGIL-CISL-UIL saranno chiamati a discutere della riprogettazione del Paese, (sarebbe grave che un qualsiasi governo pensasse di farlo senza di noi), ci saranno richieste da fare, che se non saranno soddisfatte determineranno il nostro dissenso ed il nostro conseguente contrasto all’azione del governo. Penso in proposito  che i contenuti di una politica di Governo che segnino una reale discontinuità con l’azione del Governo Berlusconi debbano necessariamente riguardare:

-   Il fisco, con l’abolizione del secondo modulo della riforma  Tremonti , la restituzione del Fiscal Drag, l’introduzione di una imposta sui patrimoni e sulla ricchezza immobiliare in linea con la media europea e il ripristino di una rigorosa lotta all’evasione ed alla elusione fiscale;

- Risorse per i contratti pubblici in linea con quanto proposto dalla tesi n. 8 sulla contrattazione;

-  L’avvio di una politica che renda i servizi oggi a domanda individuale, servizi di interesse generale e che renda davvero esigibili ed universali il diritto all’acqua, alla salute, all’istruzione.

-   Una nuova politica occupazionale nei settori  pubblici, in linea col  nostro emendamento, e che avvii il percorso di stabilizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori pubblici.

-  Una legge sulla rappresentanza che, per quanto ci riguarda, può essere costruita sulla base del nostro emendamento, come proveremo a discutere nella tavola rotonda di domani.

-  Una convinta azione di ripristino della legalità che parta dagli interventi indicati dalla CGIL nella Conferenza sulla legalità di Palermo del 15-16 marzo 2005.

E’, infine per quanto mi riguarda, chiaro che un eventuale intesa con il Governo su queste materie, dovrebbe essere sottoposta alla consultazione vincolante delle lavoratrici e dei lavoratori.

Alcuni hanno in questi mesi osservato che la CGIL, e la FP per quanto ci riguarda, hanno avuto un’attenzione eccessiva alla politica, quasi una sorta di sbilanciamento verso la politica.

La CGIL ha 100 anni e non molti ricordano che la CGIL, caso unico in Europa, se si fa eccezione per le Unions in Gran Bretagna, nasce prima dei partiti della sinistra. Se così si può dire, la CGIL ha fondato i partiti della sinistra e non viceversa. Da sempre la CGIL ha avuto l’ambizione di essere un soggetto politico oltre che, ovviamente, di rappresentanza sociale. Mi è capitato di vedere recentemente un filmato dell’Istituto Luce che riprendeva una manifestazione in piazza del Popolo a Roma nell’immediato dopo guerra, convocata dagli allora PCI PSI PRI e, senza nessuna remora o sudditanza dalla CGIL. La CGIL era presente ovviamente con una sua autonoma posizione.

E’ stato così ancora nel ’56 sull’Ungheria, e nel 2001 sulla guerra in Afghanistan, che ha provocato migliaia di morti e feriti e sul cui scopo e valore democratico, essendo ormai scomparsa dagli schermi televisivi, nessuno più prova nemmeno a dire nulla.

La politica ci chiede responsabilità.

Noi siamo responsabili e lo siamo stati lungo questi faticosissimi anni. Siano loro oggi più responsabili.

Comincino col sottrarsi al confronto nella campagna elettorale sul terreno scelto da Berlusconi, e parlino a noi, ed quelli che rappresentiamo, di come intendono rispondere alle domande, all’ansia di riscatto di tante donne, uomini, ragazze, ragazzi, anziane ed anziani, dalle condizioni nelle quali il governo Berluscono li ha ridotti!

Care compagne e cari compagni,

questo è il Congresso del nostro 25°, quello della nostra maturità. Un Congresso nel quale, provando ad occupare il centro della scena, abbiamo dato sin qui prova di identità e orgoglio, appartenenza ad un idea di trasformazione del nostro lavoro e, tramite esso, dell’Italia.

Questo grumo di ragione e passione, che ci muove e dà forza, è il frutto di questo lungo viaggio fatto insieme.

Ma questo viaggio non è ancora finito.

Dobbiamo prima tornare ad essere liberi.

E liberi non è una parola troppo grande, la situazione in cui viviamo ha in sé il germe della tirannide. Toqueville già nel 700 diceva: “quando vedo accordare a qualsiasi potenza il diritto ed il potere di far tutto, si chiami  essa popolo, o re, democrazia o aristocrazia, io affermo che là è il germe della tirannide e cerco di andare a vivere sotto altre leggi.”

Ma noi da questo Paese non ce ne vogliamo andare.

Dobbiamo tornare ad essere liberi. Poi il futuro dipenderà da noi.

C’è insomma ancora un bel tratto di cammino davanti a noi. Non ci possiamo fermare e non staremo fermi nemmeno per prendere fiato. E non dobbiamo perdere lucidità e convinzione nella possibilità di farcela, anche quando sembra che le forze ed i poteri che contrastiamo siano così più grandi e forti di noi. Nemmeno quando ci viene da chiederci perché facciamo una vita così complicata e qualche dubbio ci prende.

Voglio citare in proposto una frase di E. Berlinguer, un compagno che sembra a tanti così lontano ed appartenente ad un passato remoto e forse pieno di errori e che invece personalmente ancora mi manca: “Il mondo, anche questo terribile intricato mondo di oggi, può essere conosciuto, interpretato, trasformato e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere e della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita."

14.02.2006