Sessione straordinaria

"Contro il terrorismo, pace nel mondo, pace in Palestina"

"Discorso introduttivo di Laimer Armuzzi Segretario Generale FP CGIL"

22 gennaio 2002

 

 

Ancora una volta dobbiamo vedere sedie vuote.

Quelle del presidente Arafat e di Bassam Abu Sharif e di Yossi Sarid . Ma per noi non sono vuote. Le parole di Arafat, la sua voce, le persone che sono qui insieme a noi, sono la conferma di un impegno ancor più forte per la pace tra i popoli che vivono nella terra di Palestina.

Come abbiamo scritto nella frase di apertura di questa iniziativa noi siamo contro il terrorismo.

Non esiste alcuna giustificazione, nessuna comprensione, per la barbarie di chi semina morte tra persone innocenti, nelle torri di New York o nelle discoteche di Tel Aviv.

Siamo un paese che ha conosciuto il terrorismo, e quel tipo di terrorismo, e la nostra condanna non può essere che dura e forte,netta e inequivocabile.

La nostra condanna di ogni azione che coinvolga civili, siano essi israeliani o palestinesi, è totale.

D’altro canto, non è certo da oggi che vi è una convergenza di interessi tra gli estremisti dei due campi.

Quando si apre uno spiraglio al dialogo, ecco gli assassini di dirigenti palestinesi e gli uomini-bomba. Purtroppo si tratta di una costante drammatica nella storia del Medio Oriente.

E tuttavia se il terrorismo non può essere giustificato nessuno può dimenticare che la Palestina è occupata militarmente da 35 anni, il periodo più lungo della storia moderna. Nessuno può dimenticare che esiste una vittima ed un aggressore. I palestinesi oggi vivono in 220 aree controllate dall’esercito israeliano. Ogni giorno elicotteri, carri armati, bulldozer, aerei distruggono persone, case, campi ed uliveti. Muoiono centinaia di persone.

Migliaia sono ferite. Le scuole e le università palestinesi sono chiuse. Un milione di persone vive sotto la soglia della povertà, il 70% della popolazione vive con meno di due euro al giorno. In un periodo di 5 anni i palestinesi hanno avuto 331 giorni di chiusura delle frontiere con Israele, che si aggiungono alla disoccupazione endemica che è oramai al 50%.

Ed un milione di persone vive sotto la soglia della povertà.

Mi chiedo: cosa c’entra con la sicurezza di Israele e con la pace, il terribile fatto che nei Territori e a Gerusalemme est 1000 case palestinesi sono state distrutte dall’esercito e che migliaia di palestinesi si sono ritrovati senza un tetto, con 35mila ettari di terreno confiscati?

Mi chiedo cosa c’entri con la sicurezza di Israele la distruzione dell’aereoporto di Gaza, l’unico scalo per entrare direttamente nei territori palestinesi e l’unico aereoporto civile al mondo distrutto senza motivo dai tempi della seconda guerra mondiale?

Mi chiedo cosa c’entri con la sicurezza di Israele impedire al presidente Arafat di partecipare alla messa di Natale a Betlemme? L’esercito israeliano ha assediato Betlemme con i suoi posti di blocco militari, come se i pellegrini fossero dei pericolosi terroristi.. Sharon ha compiuto un atto di puro arbitrio censurato dall’intera comunità internazionale. La forza delle armi ha segnato anche il giorno che il mondo, e non solo quello cristiano, dedica alla fratellanza ed al dialogo.

Qual è il messaggio che Sharon con questa prova di forza ha inteso inviare al mondo? Che in Terra Santa regna la legge del più forte, la legge della giungla. Occorre essere consapevoli del fatto che l’umiliazione produce rabbia e la rabbia genera purtroppo violenza.

Io mi chiedo cosa c’entri la sicurezza di Israele l’atto terroristico di far saltare in aria la radio "Voce in Palestina"? Una società democratica come quella di Israele dovrebbe a gran voce gridare il suo sdegno.

E’ lecito pensare che la pace non si affermerà se Israele non si ritirerà dai territori che ha militarmente occupato e se non cesserà la costruzione di colonie che ogni giorno, da 35 anni vengono insediate nei territori palestinesi.

Io richiedo cosa c’entri la sicurezza di Israele l’atto terroristico di far saltare in aria la radio "Voce in Palestina?" Una società democratica come quella di Israele dovrebbe a gran voce gridare il suo sdegno.

Certo Sharon sembra volere altro. Dopo la passeggiata sulla spianata delle Moschee, la destra israeliana ha svelato il suo volto più duro, mostra di non avere nessuna strategia di pace, anzi, probabilmente pensa al contrario.

Mi chiedo, è possibile che l’Internazionale socialista, dove siedono insieme Simon Peres, Yossi Sarid e Yasser Arafat non sia in grado di mettere in piedi una iniziativa continua, duratura, di confronto, che aiuti la pace. A cosa servono queste grandi organizzazioni politiche internazionali se non a questo!? Cosa impedisce all’internazionale socialista di assumere una posizione che accolga la richiesta che tra gli altri anche la CGIL ha fatto e cioè l’immediato cessate il fuoco e l’invio di una forza di interposizione sotto l’egida dell’ONU che garantisca il silenzio delle armi?

Il mondo sindacale deve anche fare la sua parte. La scorsa settimana la Confederazione europea dei sindacati ha dato grande spazio al movimento sindacale palestinese e al suo segretario generale, che è ospite del nostro congresso. Un fatto importante. La CGIL è fortemente impegnata a lavorare in Palestina e per una soluzione della questione palestinese.Da parte nostra, prendiamo qui l’impegno di continuare nella strada di questa iniziativa, di essere direttamente protagonisti nella costruzione di una prospettiva realistica di pace, di andare al più presto con una nostra delegazione, magari con una delegazione dei tanti sindacati mediterranei qui presenti, in Palestina ad approfondire con il presidente Arafat e con le forze israeliane interessate alla pace, con i sindacati israeliani e quelli palestinesi, come meglio sviluppare questo sforzo per la pace e lo sviluppo economico, sociale e della democrazia di popoli così importanti per tutti noi.

Il presidente Arafat ha ribadito un punto centrale per una pace giusta, duratura, tra pari per la quale tutti noi ci battiamo: il diritto ad uno Stato indipendente palestinese e il diritto dello Stato di Israele a vivere in sicurezza entro i suoi confini. Queste sono due facce di una stessa medaglia, indivisibile: quella, appunto, di una pace giusta.

L’attacco terroristico dell’11 settembre è uno di quegli eventi che segnano un passaggio d’epoca. E’ stato detto che nulla potrà mai essere come prima, e allora perché solo in Palestina tutto resta come prima, anzi peggiora? Se si vogliono davvero sconfiggere i terroristi non basta l’uso della forza. Occorre un’iniziativa politica in grado di dare soluzione a conflitti destabilizzanti come quello israelo-palestinese. In questo senso, le parole di pace del presidente Arafat non sono un espediente, ma un segno concreto di disponibilità che Israele e il mondo non devono lasciar cadere nel vuoto.

Sappiamo che il popolo di Israele vive in trincea, con l’angoscia di nuovi attentati suicidi. Ma sappiamo che la maggioranza degli israeliani, come testimoniano recenti sondaggi, resta convinta che la creazione di uno Stato palestinese è un passaggio obbligato per giungere ad una pace nella sicurezza. Ma questa percezione si scontra con la chiusura di un governo dove ad avere avuto la meglio è la linea della contrapposizione frontale ai palestinesi.

Sono stato in Palestina solo due anni fa, la pace sembrava a portata di mano. C’era quello che si chiamava "lo spirito di Oslo". Magari non bastava ancora, ma la pace sembrava possibile. Oggi, del governo Sharon fanno parte ministri che avevano accusato di tradimento Rabin per aver firmato quell’intesa. Ed ora in nome dell’emergenza-terrorismo, intendono seppellire per sempre non solo il contenuto degli accordi transitori sottoscritti dai passati governi, ma affossare lo "spirito di Oslo" che, per molti versi, era ancora più importante.

In Rabin, ucciso dal terrorismo di chi odia la pace, c’era la consapevolezza che una pace duratura dovesse fondarsi sul riconoscimento di un duplice diritto: quello alla sicurezza per Israele, e il diritto ad uno Stato indipendente per i palestinesi. Non c’era un prima e un dopo, ma un intreccio indissolubile tra questi due diritti.

Sharon insiste nel considerare la sicurezza di Israele pregiudiziale ad un negoziato. Una posizione ideologica, strumentale. Ripartire dallo spirito di Oslo significa innanzitutto questo: unire ciò che i terroristi e i falchi israeliani, vorrebbero dividere. Con l’arma del terrore e delle rappresaglie senza fine.

Ed invece si tratta di unire due popoli. Si tratta da parte di un popolo costretto alla diaspora di comprendere e condividere il dramma di un’altra diaspora. Un popolo di esuli nella propria terra. Mi viene in mente un verso di un famoso poeta palestinese, Mohaumud Darwish: "Dove andremo, passate le ultime frontiere? Dove voleranno gli uccelli dopo l’ultimo cielo? Il mondo ci stringe, ci spinge verso l’ultimo varco, e noi ci dilaniamo per attraversarlo".

Roma come Gerusalemme sono città di tutti, luoghi di convivenza e di tolleranza, che nulla hanno a che fare con carri armati e barriere chiuse.

Caro Presidente Arafat, lei nel messaggio che ci ha inviato porge "la mano al popolo israeliano per la pace e la tolleranza… nell’ interesse supremo dei due popoli vicini perché questa è l’unica via per garantire la sicurezza, la stabilità e il progresso per tutti". Noi qui le diciamo che ognuno di noi sarà quella mano, saremo emissari ed ambasciatori di questa sua richiesta, verso il popolo di Israele e verso tutti coloro che vorranno stringere la mano della pace.

Per concludere voglio ricorrere a queste parole.

"Nessuno può rimanere insensibile all’ingiustizia di cui il popolo palestinese è vittima da più di cinquant’anni. Nessuno può contestare il diritto del popolo israeliano a vivere nella sicurezza. Ma nessuno può nemmeno dimenticare le vittime innocenti che, da una parte e dall’altra, cadono ogni giorno sotto i colpi e gli spari. Le armi e gli attentati cruenti non saranno mai strumenti adeguati per far giungere messaggi politici agli interlocutori. Neanche però la logica della legge del taglione è adatta per preparare le vie della pace.

(…) soltanto il rispetto dell’altro e delle sue legittime aspirazioni, l’applicazione del diritto internazionale, l’evacuazione dei territori occupati e uno statuto internazionalmente garantito per le parti più sacre di Gerusalemme, sono in grado di avviare un processo di pacificazione in questa parte del mondo, spezzando la catena infernale dell’odio e della vendetta. Auspico che la comunità internazionale, attraverso mezzi pacifici e appropriati, sia messa in condizione di giocare il proprio ruolo insostituibile, essendo accettata da tutte le parti in conflitto. Gli israeliani e i palestinesi, gli uni contro gli altri, non vinceranno la guerra. Gli uni insieme con gli altri, possono vincere la pace.

Non sono le parole del presidente Arafat o di qualche suo consigliere; di Shimon Peres,o di qualche leader pacifista della sinistra mondiale.  Sono le parole di Giovanni Paolo II.  Che forse parlando allo coscienze degli uomini parla, nel modo più chiaro, di politica. E chiama ingiustizia quella che solo così si può definire. Anche noi pensiamo che, nella giustizia, gli uni insieme con gli altri, potranno far vincere la pace.