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GIUGNO 2002

 

LA CGIL LANCIA LA VERTENZA NAZIONALE SULLA SALUTE

Il governo fa il contrario di ciò che dovrebbe fare. Invece di tentare di rendere compatibile la spesa con i diritti di cittadinanza in sanità, studia correttivi tra cui tickets sulle prestazioni minime, tagli all'assistenza indiretta e agevolazioni per le polizze sanitarie sostitutive. Come a dire: i Livelli essenziali di assistenza saranno affidati alle assicurazioni private. A questo "attacco" all'assistenza sanitaria pubblica risponde il Comitato direttivo della Cgil che, riunitosi a Roma l'11 e il 12 giugno scorsi, con un documento ha lanciato la vertenza nazionale e regionale sulla Sanità in cui saranno impegnate tutte le strutture confederali e di categoria. Le principali linee guida dell'ordine del giorno sono la garanzia dell'uniformità su tutto il territorio nazionale dei Lea, la riduzione dei tempi di attesa per le prestazioni, il finanziamento della legge 328 per l'integrazione socio-sanitaria, la creazione di un Fondo nazionale per l'assistenza ai non autosufficienti, la valorizzazione del lavoro in sanità (non solo quello dei medici), la destinazione di adeguate risorse alla ricerca pubblica.


Comitato Direttivo 11-12 giugno 2002
Ordine del giorno

Il Comitato direttivo della CGIL impegna l’organizzazione a sostenere, nel quadro del nuovo assetto istituzionale introdotto con le riforme del titolo V della Costituzione, linee di intervento sulla Sanità coerenti con i principi dell’universalismo dei diritti di cittadinanza e con la necessità di politiche di solidarietà per riequilibrare le disuguaglianze territoriali.

Pertanto, il Comitato direttivo della Cgil impegna le proprie strutture Confederali e di Categoria a sostenere una vertenza nazionale sulla salute, che orienti le vertenze Regionali e territoriali sui seguenti punti:

  • una corretta definizione dei livelli essenziali di assistenza in rapporto al Piano sanitario nazionale, che devono in ogni caso essere garantiti in maniera uniforme nel territorio nazionale a tutti i cittadini. In tal senso, l’attuale politica regionale dei tickets è da respingere;

  • la riduzione dei tempi di attesa per accedere alle prestazioni dovute;

  • l’applicazione dell’Atto di indirizzo per l’integrazione socio-sanitaria, che non può avvenire senza finanziare adeguatamente la legge 328 – che regola il sistema dei servizi e delle politiche sociali – per la cui realizzazione è necessario assegnare risorse alle Regioni e ai Comuni, in controtendenza con quanto sta avvenendo;

  • la soluzione, attraverso la creazione di un Fondo specifico nazionale, del problema dell’assistenza ai non autosufficienti. In tal senso, va sostenuta la raccolta di firme per la proposta unitaria dei Pensionati sulla costituzione di un Fondo nazionale per la non-autosufficienza delle persone anziane;

  • la valorizzazione del lavoro in sanità (non solo quello dei medici) attraverso un sistema contrattuale su due livelli, nazionale e aziendale, che garantisca a tutti gli operatori pubblici e privati uniformità di regole e diritti e incentivi la formazione e la qualità professionale, premiando il lavoro “d’équipe”;

  • la destinazione di adeguate risorse alla ricerca pubblica, che nel campo sanitario è fondamentale per stimolare e orientare la ricerca privata.

Il Piano sanitario nazionale è il punto da cui partire. Ad esso, infatti, devono fare riferimento i Livelli essenziali di assistenza (Lea), per i quali chiediamo innanzitutto che sia resa esplicita e inequivocabile la caratteristica di uniformità su tutto il territorio nazionale. In tal senso e con quest’obiettivo, i Livelli essenziali – ed uniformi – di assistenza devono essere rinegoziati col Governo, alla luce del Piano sanitario nazionale proposto. I Lea, infatti, devono corrispondere ad un progetto di Servizio sanitario nazionale ed alla definizione chiara di obiettivi di salute e non – come rischia di avvenire – alla disponibilità delle risorse. E’ questo il rischio che si corre, in conseguenza del decreto 405 del 2001 (che recepisce l’Accordo Stato-Regioni dell’8 agosto dello stesso anno), il quale, in virtù del cosiddetto “patto di stabilità”, subordina l’assistenza erogabile alla quantità di risorse che ogni Regione può e ritiene di mettere in campo. Un’ipotesi che non colleghi i Lea al Piano sanitario nazionale li rende fragili, innestati in un quadro di Piani sanitari regionali che, oltre alla frammentazione, rispondono ad impostazioni politiche ed a modelli diversi di sistema e rischiano – per le vicende finanziarie e la tendenza alla mercatizzazione della Sanità pubblica – di farli scivolare verso il minimalismo, che va rifiutato.

L’assistenza farmaceutica, che rientra nei Livelli essenziali di assistenza, non deve subire pericolose e discriminatorie differenziazioni regionali nell’offerta, legata alle scelte di destinazione finanziaria delle singole Regioni in materia di farmaci. In tal caso, si produrrebbero gravi disuguaglianze nell’offerta di prestazioni ai cittadini e gravi ripercussioni e limiti nella definizione di politiche industriali adeguate.

I riflessi dei diversi equilibri economici e finanziari delle Regioni possono, inoltre, produrre, su pressione delle imprese produttrici di farmaci, una spinta verso un livello di contrattazione territoriale che finirebbe con l’avvantaggiare le grandi imprese o le Regioni con grandi concentramenti produttivi, innestando ulteriori squilibri non solo a carico dell’assistenza alla popolazione italiana, ma anche dei lavoratori del settore.

La questione delle risorse, che è stata definita dalla legge 405 dello scorso anno fino al 2004, non può rappresentare – insieme ai meccanismi messi in atto dalla legge 56 sul federalismo fiscale – l’elemento dirimente dell’universalismo sanitario e del mantenimento del Ssn. Bisogna ripercorrere, anche nei bilanci e nei Dpef regionali, la strada della contestualità, prevista dalla legge 229/99. Ossia, il Dpef deve fare riferimento al Piano sanitario nazionale (che deve essere atto programmatico) per l’individuazione delle risorse necessarie all’assistenza sanitaria. Ciò significa, nel quadro oggi dato, che è necessario aumentare le fonti di finanziamento pubblico del Ssn.

Insieme a questa impostazione, va rilanciata la scelta dei protocolli diagnostico-terapeutici come strumenti decisivi per individuare l’appropriatezza e l’efficacia, ad essa legata, delle prestazioni offerte ed erogate ai cittadini. In un quadro di coerenze, sarà possibile riproporre a livello nazionale forme di assistenza riabilitativa e altre prestazioni a valenza sociale oggi escluse dai Lea ed ampliare i criteri dell’assistenza odontoiatrica, attualmente molto limitati e non rispondenti ai bisogni di prestazioni.

Ma il disegno generale deve recuperare appieno la valenza della prevenzione, che costituisce uno dei livelli essenziali di assistenza. E’ necessario impostare un’iniziativa seria sull’intero sistema di prevenzione, che corre il rischio di essere minato dallo smantellamento di presidi fondamentali (è il caso dei consultori, per i quali deve essere invece pensata una strategia di rilancio, che colga appieno la valenza sociale e sanitaria delle politiche che vanno ad essi affidate), dallo svuotamento di ruolo della Sanità territoriale, a partire dai Distretti (le politiche fondamentali continuano ad essere incentrate sugli Ospedali), dall’assottigliarsi delle risorse disponibili per i Servizi di prevenzione per i luoghi di lavoro, in concomitanza con il tentativo di intervenire per delega sul decreto legislativo 626 del 1994, ma anche di attingere ai capitoli di spesa che riguardano questi ambiti normativi (è il caso degli interventi finalizzati all’adeguamento della sicurezza previsti proprio dalla 626, che verranno decurtati per una quota finalizzata alla ricapitalizzazione dell’Alitalia, prevista dal decreto del Consiglio dei Ministri, cosiddetto “taglia-deficit”).

A fianco della prevenzione, in questo quadro di riconoscimento del valore sociale universalistico del Servizio sanitario nazionale, integrato nel sistema più generale delle politiche dei diritti di cittadinanza e di coesione, deve essere recuperata, altresì, la valenza fondamentale dell’integrazione socio-sanitaria, che non è una sommatoria di prestazioni, per le quali individuare di volta in volta il soggetto pagatore (Sanità o Enti locali, o entrambi), ma una strategia coordinata e complessa, da mettere in campo a partire da quanto definito con la legge 328 del 2000 sull’assistenza e, in particolare, dall’atto di indirizzo sull’integrazione socio-sanitaria contenute nel Dpcm 14 febbraio 2001. Inserita nei Livelli essenziali di assistenza, ma svincolata dalla definizione delle risorse necessarie, l’integrazione socio-sanitaria rischia di essere subordinata ancora più radicalmente alla logica delle risorse che i livelli istituzionali – ciascuno per proprio conto – decideranno di mettere in campo e di venire sottratta a quella particolare valenza sociale, di maggior sostegno alle fasce di popolazione più debole (e di loro integrazione nel tessuto territoriale), che è la sua caratteristica peculiare.

Particolare attenzione merita la situazione della non autosufficienza, per la popolazione anziana e per quella con particolari condizioni fisiche e sensoriali, per la quale vanno previsti progetti di intervento e di sostegno. Devono essere respinti i tentativi di delegare a forme solo economiche l’assistenza alle persone interessate o alle loro famiglie: una tale scelta priverebbe le persone di un percorso certo, che le aiuti ad affrontare la loro situazione, e non sarebbe in grado di offrire – in un quadro di progressiva assenza di servizi – un’assistenza adeguata.

Il decreto sui LEA non può essere, dunque, utilizzato dalle Regioni per ridurre le prestazioni dovute ai cittadini e per favorire il ricorso a forme di mutualità “integrativa”, che diventerebbero in questo caso “sostitutive”. La natura contrattuale di molte forme di “mutualità sanitaria” implica una riflessione chiara e decisiva in materia, che veda da un lato l’esigenza di rispondere ad una domanda da parte dei lavoratori e dall’altro la consapevolezza dell’incoerenza di alcune scelte con la tenuta del sistema che vogliamo difendere. Per queste ragioni il Piano sanitario nazionale deve promuovere una politica di miglioramento dell’offerta di prestazioni efficaci da parte delle strutture pubbliche – o private accreditate – tale da vanificare la spinta verso forme di integrazione sanitaria sostitutiva. La Cgil deve elaborare una proposta sui Fondi sanitari che, a partire da quelli contrattuali, si misuri con nuove forme effettivamente integrative.

I meccanismi di privatizzazione in atto, che vedono già

-  gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, oggetto della delega ordinamentale affidata al Ministro Frattini,
-  le Fondazioni private, delegate ad operare sia sul terreno sanitario che sociale,
-  la delega per la costituzione dell’Impresa sociale, così come formulata dal Consiglio dei Ministri,

costituiscono un’ipoteca grave sulle leggi-quadro in materia sanitaria e sociale e configurano la legittimazione della sussidiarietà “orizzontale”, intesa come sostituzione progettuale e gestionale di ruoli e funzioni dello Stato e delle Regioni.

Vanno scongiurati cambiamenti legislativi che mettano in discussione i diritti personali, civili e gli assetti normativi che hanno consolidato nel tempo ambienti e pratiche terapeutiche, come nel caso della psichiatria e delle tossicodipendenze.

Occorre assumere una posizione netta in materia di ricerca biomedica: oltre ad un pericoloso orientamento verso la privatizzazione della stessa a partire dal documento del Governo, assistiamo ad incursioni attraverso provvedimenti che riguardano la spesa. E’ emblematica la questione dei brevetti, che – pur rappresentando un intervento di tendenza rispetto alle dinamiche europee – restano discutibili se privi della necessaria gradualità, utile ad evitare contraccolpi sul sistema delle imprese che si riverberano sia sulle opportunità del sistema “ricerca”, sia sugli spazi contrattuali delle categorie interessate.

La proposta del Ministro Sirchia di cambiare lo stato giuridico dei medici, introducendo la reversibilità dell’esclusività del rapporto di lavoro, è grave perché rischia di ledere il principio del contratto nazionale e nega la correttezza e trasparenza dei rapporti professionali, alimentando l’attività privata senza controllo a danno della qualità e dell’efficienza del servizio pubblico. Occorre, anzi, esercitare tutta la nostra opposizione e chiedere alle Regioni di sostenere la difesa del contratto nazionale e delle misure previste dal dl 229/99, volte anche alla valorizzazione professionale e contrattuale della dirigenza medico-veterinaria a rapporto esclusivo.

Insieme, difendere il Contratto nazionale del Comparto Sanità significa salvaguardare anche il carattere solidaristico e universale del sistema pubblico di tutela, poiché il Ccnl è oggi il più importante fattore di unificazione del Ssn.

La vertenza nazionale muove da queste considerazioni e si propone di riaprire le specifiche questioni con i livelli istituzionali preposti, a partire dal Piano sanitario nazionale, sostanzialmente insufficiente come atto di indirizzo per le Regioni - essendo privato di un valore programmatico di regolazione - ed inefficace per la genericità degli obiettivi e la mancanza di riferimento alle risorse necessarie, conseguente alla non assunzione dei Livelli essenziali di assistenza quali basi vincolanti per la definizione del Piano stesso.