Convegno Nazionale

ESCLUSIVITA’

PER LA SANITA’ PUBBLICA

   

Introduzione di 

Massimo Cozza

Segretario Nazionale FPCGIL Medici  

Roma, 5 giugno 2006

Centro Congressi Cavour

 

Care compagne, cari compagni, 

la nascita del nuovo Governo Prodi con Livia Turco Ministro della Salute, e le nomine a sottosegretari di Gian Paolo Patta, Serafino Zucchelli e Antonio Gaglione, rappresentano più che una speranza per chi, come noi, crede nella sanità pubblica. 

Adesso si tratta di passare ai fatti. 

Le sfide decisive dalle quali dipende il diritto alla salute nel nostro Paese, e con le quali il Governo ed il Parlamento si dovranno misurare, riguardano oggi il livello di finanziamento del sistema e la sua unitarietà. 

L’invecchiamento della popolazione con le connesse problematiche epidemiologiche dell’incremento della non autosufficienza e della cronicità, lo sviluppo delle tecnologie sanitarie ed il progresso scientifico, le maggiori aspettative di salute della popolazione, sono alcuni dei fattori che determinano un incremento della spesa sanitaria, comune a tutti i paesi occidentali. 

L’Italia spende ormai per la sanità l’8,4% del Prodotto interno lordo, ma è un ammontare inferiore alla media del 9,4% dei paesi Ocse, per non parlare degli Stati Uniti che sono arrivati al 15% del Pil. 

All’interno della spesa sanitaria italiana dell’ 8,4% del Pil, il 75% è spesa pubblica.

E questa rappresenta solo il 6,3% del Pil, a fronte dell’8,5% della Germania e del 7,3% della Francia.  

In base ai dati dell’Ocse, la spesa sanitaria pubblica pro capite, espressa in standard di potere d’acquisto, si attesta nel nostro paese sui 1.640 dollari, contro i 2.210 dollari della Germania, i 2.080 della Francia e i 1.800 del Regno Unito. 

In pratica in Italia la dinamica della spesa pubblica per la sanità, in rapporto al Pil e pro capite, è significativamente più contenuta rispetto alla media dei Paesi dell’Unione Europea, ed il sistema rischia di non farcela più. 

Per il 2005 il disavanzo sanitario è di 4,3 miliardi. Per il 2006 il finanziamento è di 91 miliardi mentre la spesa viaggia intorno ai 96 miliardi, con la prospettiva di un ulteriore buco di 5 miliardi.  

E’ arrivato il momento di dire basta al sottofinanziamento della sanità pubblica e di avviare un nuovo percorso virtuoso che coniughi risorse in linea con l’Europa, rigore ed equità. 

Appare pertanto fuori luogo un automatico aumento, deciso per legge dal centro destra, delle addizionali Irpef e Irap, che colpirebbe in modo indiscriminato cittadini ed imprese delle sei Regioni che hanno cumulato un disavanzo sanitario nel 2005, senza contare che giunte di centro sinistra hanno ereditato per larghissima parte le cause dei conti in rosso. 

I cittadini, in diverse Regioni, si troverebbero doppiamente beffati, con servizi meno efficienti, e con più tasse da pagare.  

E senza interventi strutturali, i soldi andrebbero a finire in un pozzo senza fondo. 

Fortunatamente la ragione ha momentaneamente prevalso e Lazio, Campania, Sicilia, Abruzzo, Molise e Liguria, avranno tempo entro giugno per concordare con il Governo rigorosi ma equi piani di rientro, bloccando l’aumento automatico delle addizionali. 

In questo processo chiediamo che le Regioni non assumano iniziative unilaterali, e che vi sia un coinvolgimento vero delle parti sociali, a partire dal sindacato. 

Non si tratta solo di garantire il diritto alla salute nel nostro paese ma di ripartire dalla realtà di una spesa sanitaria come fattore di sviluppo e di occupazione. I dati di un recente studio di Confindustria indicano la filiera della salute come la terza impresa d’Italia. 

C’è bisogno di un nuovo patto tra Governo e Regioni che superi le sottostime croniche e consenta un governo serio della spesa sanitaria.  

Le intenzioni del Ministro della Salute ed anche i primi passi sembrano essere nella direzione giusta.  

Positiva è stata la decisione di un “tavolo” a tre per l’emergenza spesa, tra i ministri dell’Economia, della Salute e le Regioni. 

Pensiamo e chiediamo che anche con le parti sociali, a partire dal sindacato, si apra un confronto con il Governo e con le Regioni, che ci auguriamo proficuo, pur nella distinzione dei ruoli e delle responsabilità. 

La prova del nove sarà comunque rappresentata dal prossimo Dpef e dalla finanziaria 2007, dai quali ci aspettiamo un adeguato e certo finanziamento per la sanità pubblica, anche con le necessarie risorse per garantire il rinnovo dei contratti e delle convenzioni, già scaduti il 31 dicembre 2005.  

Siamo consapevoli che un maggiore finanziamento da solo non basta, e che la scommessa di una sanità pubblica efficiente passa attraverso una razionalizzazione delle risorse, così come Regioni governate dal centro sinistra da diversi anni hanno dimostrato sul campo. Il risanamento può e deve essere coniugato all’equità. 

Le risorse economiche vanno indirizzate verso attività prioritarie, a partire dalla implementazione delle cure primarie e da un piano di innovazione degli ospedali, dalla prevenzione e dalla ricerca. Al più presto andrà inoltre istituito un fondo nazionale per la non autosufficienza, alimentato dalla fiscalità generale. 

Va incrementato il livello di efficienza di diverse Regioni con una seria e puntuale lotta agli sprechi, a partire da validi sistemi di programmazione, monitoraggio e controllo della spesa. Va ripensata l’organizzazione strutturale del sistema. 

Si tratta di ripartire dai bisogni di salute del cittadino come punto di riferimento per organizzare, nel suo luogo di vita, un rete integrata di servizi sanitari e sociali in grado di assisterlo 24 ore su 24, senza dover ricorrere sempre e comunque all’ospedale. La medicina generale e specialistica dovranno pertanto rimettersi in gioco. 

Non si tratta solo di spostare il baricentro del sistema sul territorio con una riorganizzazione delle cure primarie, ma anche di razionalizzare e modernizzare le strutture ospedaliere. Basti pensare che circa il 75% degli ospedali è stato costruito oltre 30 anni fa, ed il 15% risale allo scorso secolo. Meno ospedali piccoli, da riconvertire in strutture per l’assistenza territoriale, e grandi ospedali in parte da rinnovare. 

La struttura della spesa dovrà pertanto essere ribilanciata a favore dell’assistenza di lungo periodo rispetto alle patologie acute, migliorando la qualità ed i conti. 

Andrà inoltre rivista e monitorata la spesa farmaceutica, cresciuta del 12,5% nel primo trimestre del 2006, evitando di delegare i controlli alla guardia di finanza, ma con appropriati accordi tra Governo, Regioni, sindacati, industria, farmacisti e medici prescrittori, e le associazioni di rappresentanza dei cittadini e dei consumatori. 

Il sistema va riqualificato, può reggere ed essere rilanciato, ma solo se non viene frantumato in tanti pezzi regionali, rendendo il diritto alla salute esigibile a seconda della residenza. 

Per questo, insieme a tutta la CGIL, siamo impegnati per il referendum contro la devolution, ed in tanti dovremo andare a votare NO il prossimo 25 giugno. 

Dobbiamo spazzare via la nuova riforma di Berlusconi e della Lega, ed arrivare ad un nuovo testo che riveda anche il vigente titolo V della Costituzione.

Non si tratta solo di mantenere l’unitarietà del sistema per i cittadini ma anche per gli operatori.  

In questo quadro vogliamo riconfermare il ruolo centrale del contratto nazionale di lavoro, strumento universale di garanzia dei diritti fondamentali di tutti gli operatori e di incremento del potere di acquisto delle retribuzioni.

Così come vogliamo ribadire la nostra contrarietà a qualsiasi operazione di una sua regionalizzazione. 

Dobbiamo ripensare i rapporti tra Stato e Regioni con un nuovo  patto di collaborazione che chiarisca i principi generali e di sistema di competenza esclusiva dello Stato e validi in tutto il paese, e la potestà delle Regioni a partire dalla organizzazione del sistema. 

Si tratta di arrivare ad un federalismo cooperativo, solidale ma efficiente, che porti ad un superamento nel tempo dello svantaggio nel quale si trova l’area del Mezzogiorno. 

Andranno inoltre sottoposti a verifica i livelli essenziali di assistenza che risalgono al febbraio del 2001, e soprattutto andrà realizzata una loro stretta corrispondenza con le risorse. 

Se le questioni finanziarie ed istituzionali rappresentano lo snodo fondamentale per il futuro della nostra sanità, la sfida non può essere vinta senza operatori motivati, qualificati, formati ed aggiornati. 

In questo quadro l’esclusività del rapporto di lavoro ha sempre rappresentato la stella polare della nostra attività sindacale per la sanità pubblica. 

Chi sceglie di lavorare nel servizio pubblico non può e non deve lavorare anche nel privato. 

Una azienda che vuole essere competitiva non consente ai propri dirigenti di lavorare il pomeriggio per la concorrenza a proprio svantaggio, e nel caso della sanità, a danno anche del cliente-cittadino. 

Oggi, infatti, troppo spesso il paziente è costretto a rivolgersi al privato per ottenere una prestazione sanitaria dovuta, trovandosi di fronte a lunghe liste di attesa. 

Ed il pomeriggio nel privato può essere visitato ed operato dallo stesso medico che la mattina era irraggiungibile, basta pagare. 

Quale interesse potrà avere il medico ad effettuare la mattina più visite e più operazioni nel pubblico, quando sa che il pomeriggio lo stesso paziente in lista di attesa, la può saltare solo retribuendo due volte lo stesso medico: la prima volta con le tasse con le quale vengono pagati gli stipendi, la seconda volta con la parcella nel privato. 

E’ un sistema iniquo, non solo per i cittadini, che si possono curare in relazione alle loro possibilità economiche, ma per gli stessi medici che credono nella sanità pubblica. 

Esclusività di rapporto significa anche porre fine alla crescita esponenziale dei contratti atipici nella sanità che, così come in tutto il pubblico impiego, si traducono nella precarietà del posto di lavoro. 

Per noi il rapporto deve invece essere esclusivo e a tempo indeterminato, così come sottoscritto nel programma dell’Unione dalle varie forze politiche che sostengono Romano Prodi. 

La precarizzazione del lavoro medico, ma non solo, è un processo che si accompagna ad una sempre più diffusa esternalizzazione dei servizi, che sta portando il sistema ad una strisciante privatizzazione, con danni non solo per gli operatori e per i cittadini, ma anche per le finanze dello stato. 

Ciò che si spaccia per efficiente è spesso più costoso.  

Basti pensare che la maggior parte del deficit della sanità è concentrato in Regioni, quali il Lazio, la Campania e la Sicilia, che hanno in comune un sistema sanitario con una rilevante presenza del privato. 

E a questo processo di strisciante privatizzazione rischia di dare il suo contributo anche lo spezzatino contrattuale delle prestazioni, a partire dalle guardie notturne, che possono essere appaltate in libera professione con una specifica tariffa contrattuale nazionale.  

Il maggior guadagno per i medici che vorrebbero lavorare oltre le 38 ore pur di guadagnare di più, rischia di diventare una illusione.  

Le aziende, una volta spezzettato il lavoro, punteranno ad appaltare le singole prestazioni al migliore offerente privato, risparmiando, a scapito della qualità del servizio. 

Per queste ragioni siamo stati contrari alla tariffa nazionale per le guardie notturne, convinti che la strada maestra è la valorizzazione professionale ed economica del medico che sceglie di lavorare nel pubblico, senza ulteriori prestazioni oltre le 38 ore, e con la possibilità di esercitare una libera professione intramoenia etica, e non simile a quella privata. 

Da alcuni anni, con il Governo Berlusconi, sembra invece ritornato lo storico scambio che ha caratterizzato gran parte della storia della nostra sanità in Italia.  

Caro medico, nel pubblico ti pago poco e ti do poche soddisfazioni, ma in cambio ti puoi rifare nel privato.  

Si tratta di uno scambio che può essere conveniente per molti, ma non per chi, come noi, medici, veterinari, dirigenti ed operatori sanitari della CGIL, vogliamo investire solo nella sanità pubblica, ma da questa pretendiamo di essere ben ricompensati, sia dal lato professionale che dal lato economico. 

E l’investimento nella sanità pubblica è conveniente per tutti coloro che vogliono lavorare con soddisfazione e con gratificazione in moderni ed efficaci ospedali e servizi territoriali. 

E per la maggioranza dei cittadini che vogliono risposte appropriate ai bisogni di salute, senza essere costretti a rivolgersi al privato, che è arrivato ad attirare il 25% della nostra spesa sanitaria. 

E’ infine conveniente per le finanze del nostro paese, come dimostra la spesa per la sanità degli Stati Uniti che, puntando sulle assicurazioni private, è circa il doppio della nostra spesa sanitaria rispetto al Prodotto Interno Lordo, e lascia circa 46 milioni di cittadini americani senza assistenza. 

Dobbiamo pertanto rinnovare il patto per un nuovo investimento da parte dei medici e dello Stato nella sanità pubblica, che era stato raggiunto con il Ministro della Salute Bindi con l’introduzione della esclusività di rapporto, e che invece è stato stravolto da Sirchia.  

Basti pensare che oggi perfino chi dirige strutture sanitarie pubbliche può liberamente scegliere se lavorare anche nel privato.  

E a seconda di come gli vanno gli affari può valutare ogni anno cosa gli conviene di più.  

Dove si è mai visto che proprio i massimi dirigenti con responsabilità gestionali possono lavorare liberamente per la concorrenza ? E decidere loro se gli conviene o no.

Non si tratta solo di una questione etica, che già da sola basterebbe a far gridare vergogna, ma anche di efficacia ed efficienza del sistema pubblico.  

Se anche i capi hanno le maggiori gratificazioni fuori dall’ospedale, quale credibilità potranno avere tra i propri collaboratori ?

E quale impegno metteranno per far funzionare al massimo i servizi per i cittadini, andando così contro i propri interessi nel privato ?  

Ebbene a questa situazione vogliamo dire basta.  

Per questo chiediamo al nuovo Ministro della Salute ed al Governo Prodi, al Parlamento ed alle Regioni, dei precisi impegni che ribadiscano la centralità della esclusività per la sanità pubblica, così come contenuto anche nel programma dell’Unione. 

In primo luogo va abrogata la legge Sirchia-Berlusconi sulla reversibilità e riaffermata l’esclusività come unico di rapporto di lavoro per i medici e per i dirigenti della sanità pubblica su tutto il territorio nazionale.  

Dobbiamo infatti superare anche la possibilità di scelta che, stante l’attuale legislazione, la Corte Costituzionale ha consentito alle Regioni con la recente sentenza in materia. 

In sostanza la Consulta con la sentenza 181 del 2006, stante l’attuale legislazione, ha lasciato alle Regioni la facoltà organizzativa di poter affidare la direzione delle strutture, sia semplici che complesse, solo ai medici in esclusività di rapporto.  

E’ rimasta pienamente vigente la reversibilità, e si è creata una situazione a macchia di leopardo dove le regioni più virtuose per la direzione delle strutture richiedono l’esclusività, e le altre no.  

La sentenza è stata positiva in un contesto berlusconiano di tana libera tutti. Ma oggi si tratta di una situazione inammissibile.  

L’esclusività non può essere un optional organizzativo, ma una scelta politica nazionale, un principio essenziale per l’assistenza e pertanto da estendere su tutto il territorio nazionale. 

Al Governo Prodi, in collaborazione con le Regioni, al Parlamento, chiediamo pertanto una modifica della legislazione in materia, come da programma dell’Unione.

Non c’è bisogno di inventarsi nulla. Basta riprendere la via maestra della 229 della Bindi. 

Se la reversibilità è il punto centrale da modificare, dobbiamo anche denunciare il cattivo funzionamento della cosiddetta libera professione intramoenia. 

Su questo tema eravamo partiti, noi compresi, con le migliori intenzioni, ma poi sul campo i risultati sono stati altri, e la libera professione intramoenia è sempre più simile a quella svolta nel privato. 

Per il cittadino che a fronte di una insuperabile lista di attesa è costretto pagare per farsi visitare od operare, non fa alcuna differenza se sulla ricevuta c’è il timbro della Asl o di una struttura privata. In particolare quando, anche fisicamente, sempre in una struttura privata si deve rivolgere, e le parcelle sono identiche. 

La stessa Ragioneria generale dello Stato nel rapporto 2005 denuncia l’inosservanza della normativa e dei regolamenti di attività intramuraria, e la mancata connessione, nella sua programmazione e controllo, con le liste di attesa, anche a causa del proliferare di autorizzazioni allo svolgimento dell’attività presso studi privati, anziché in spazi posti a disposizione dalle aziende pubbliche. 

D’altro canto su un totale di 136.000 sono solo 5.000 i medici ed i dirigenti che hanno un rapporto non esclusivo, il 3,7%, ed il trend è in diminuzione.  

Così come pubblicato in un editoriale sulla prima pagina del Sole24ore Sanità della scorsa settimana, ai medici l’esclusività piace, “semprechè qualcuno non faccia il furbo”. 

Allora si tratta di arrivare a nuove norme che garantiscano una libera professione intramuraria etica, corretta e non speculativa, da attuarsi nelle strutture pubbliche e con controlli appropriati, in primo luogo rispetto alle liste di attesa. 

Prima il medico deve garantire una serie di volumi prestazionali concordati con l’azienda da svolgere all’interno del suo normale orario di lavoro. 

In secondo luogo se viene attivata la libera professione aziendale, in particolare per abbattere le liste di attesa, può scegliere di aderire. 

E solo successivamente, anche in presenza di liste di attesa, può essere autorizzato alla libera professione individuale intramoenia ma all’interno della struttura pubblica, e con tariffe anch’esse concordate.  

Ovviamente la Regione e le aziende ospedaliere e territoriali dovranno mettere in atto una serie di puntuali controlli che impediscano una rinnovata omologazione della libera professione intramoenia con quella privata. 

Su questa rilevante problematica per i cittadini, il primo banco di prova per il Ministro della Salute, per il Governo Prodi, per il Parlamento e per le Regioni, è rappresentato dalla prossima scadenza del 31 luglio 2006 per la proroga della possibilità di utilizzare gli studi privati anche per la libera professione intramoenia.  

Abbiamo il dovere di dire basta, e di mettere la parola fine alle automatiche proroghe berlusconiane.  

A maggior ragione consideriamo inaccettabili colpi di spugna finalizzati a cancellare le scadenze previste dalla vigente normativa, senza che l’obbiettivo della intramoenia nelle strutture pubbliche sia stato raggiunto. 

Se già con la previsione di un scadenza per le autorizzazioni per l’intramoenia negli studi privati, in diverse regioni ancora non sono stati adottati i necessari provvedimenti, eliminare la scadenza sarebbe un inequivocabile segnale di tana libera tutti. Sarebbe come dire ai medici, eravamo su “scherzi a parte”. 

Siamo però consapevoli che l’abrogazione dal 31 luglio 2006 dell’autorizzazione alla utilizzazione degli studi privati per la libera professione intramoenia, sarebbe un atto che in diverse Regioni danneggerebbe in primo luogo i cittadini. 

Si tratta allora di collegare la proroga ad un piano di rientro e di controllo sulla libera professione intramoenia autorizzata negli studi privati, che la Conferenza Stato-Regioni dovrebbe adottare prima di fine luglio. 

D’altro canto la stessa Livia Turco, in qualità di responsabile nazionale DS per il Welfare, a gennaio di questo anno, nella relazione tenuta alla prima conferenza nazionale dei DS sulla salute e le politiche sociali, indicava come questione da risolvere un servizio sanitario veloce ed efficiente per chi paga ed uno lentissimo per chi non ha i soldi per pagare.  

Chiedeva pertanto l’individuazione di nuove modalità di esercizio della libera professione nella struttura pubblica. Adesso è venuto il momento.  

Infine, se è giusto ed etico, ripristinare il principio della esclusività ed arrivare ad una nuova regolamentazione della libera professione intramoenia, insieme è anche necessaria una valorizzazione dell’esclusività non solo professionale ma anche economica.  

Ad un nuovo ordinamento, cogente ed etico, dovrà pertanto corrispondere una rivalutazione della indennità di esclusività, ferma agli stessi valori economici di oltre sei anni fa. 

Queste le nostre proposte per l’esclusività nella sanità pubblica e per una libera professione etica, consapevoli che la strada non è in discesa e che diversi le contrasteranno. 

Abbiamo però ragione di ritenere che il Ministro della Salute, il Governo Prodi, e la maggioranza del Parlamento, terranno fede al programma dell’Unione, insieme alle Regioni governate dal centro sinistra, e porteranno avanti le iniziative dovute. 

E’ infatti questa una questione prioritaria non solo per tutta la CGIL, ma per la sanità pubblica del nostro Paese.